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domenica 18 dicembre 2022

Jonio di Agnese Ferri


Questa deliziosa suite intitolata Jonio mi fa pensare a molte cose.

Fra l’altro alla sobrietà.

Ma innanzitutto al fatto che non avevo mai usato prima di oggi, riferendolo a un libro, l’aggettivo “delizioso”; la parola viene dal latino lacere che vuol dire attirare, attrarre, allacciare. Appunto. È quanto accaduto fra me e questo volumetto di Agnese Ferri edito da Edigrafema a marzo di quest’anno.

E mai prima d’ora avevo pensato che un libro potesse essere - più che una raccolta, più che una antologia -, una suite.

Sì, una suite, quelle della musica barocca, intese come articolate composizioni di danze con tempi diversi, arie, sarabande, adagi, allegri, giga, però concatenate da una sequenza narrativa che le accomuna. Sì, anche quelle del “progressive rock” degli anni 70: le suite dei Pink Floyd, dei King Crimson, dei Genesis, dei Procol Harum.

Jonio è una suite letteraria, un complesso di racconti correlati non solo dal mare, ma dalla postura della narratrice che trae da brevi spaccati di vite umane la cifra della nostalgia e del mistero a volte doloroso dell’esistere e, gli occhi fissi sul passato e sul presente, come l’Angelus novus di Paul Klee, volge le spalle al futuro verso il quale corre. Si dice in Jonio: la strada mi ha portato qui. “Ora che sono arrivata voglio dimenticare la strada”. Ma a volte non si parte: “Questa terra mi cresce dentro”, si dice anche, quando si decide di non lasciarla. Oppure la si lascia. E dentro rimane, questa terra, questo mare: anche se si è lontani.

A queste cose pensavo. E pensavo al mare, ovviamente. E alla pittura. Pensavo alle pennellate brevi degli impressionisti, al loro giustapporre i colori puri per esaltare la luce: pensavo a Manet. E pensavo alle case blu inondate di sole.

In fondo le arti hanno questo in comune: è la scelta dei colori, delle note o delle parole a comporre l’immagine, è il loro rispettivo ritmo a plasmare nella nostra mente la disposizione empatica che ci conduce al riso o alla commozione o alla percezione astratta di ciò che da impalpabile, diviene, nei nostri neuroni, cibo per la mente; la loro sequenza ha il potere, nell’insieme, di richiamare dalla testa il nostro sentire più profondo, rendendoci partecipi di drammi, passioni, sentimenti vaghi, posture dell’animo la cui voce trova risonanze profonde dentro di noi. Se questo accade, quando questo accade, parliamo di arte.

E con Jonio, accade: “Al mercato Linda sta parlando con una ragazza, compra la frutta. Vicino a me un anziano signore nella sua giacca di cotone parla al telefono e chiede dei fiori”.

Impressionante. Impressionismo. In un rigo e mezzo c’è una storia intera, cinque personaggi, forse sei; quattro azioni, un luogo pieno di gente, cinque oggetti che veicolano l’azione umana. La scena si compone lentamente, ne vediamo le luci, ed entriamo nelle intenzioni di ciascuno, siamo nei panni di ciascuno, quella scena di vita, a colori vividi, è indelebilmente dipinta nella nostra mente, un pezzetto alla volta. 

La lettura dell’incipit di un’opera è comunemente considerata la chiave con cui il lettore accede alle segrete stanze dell’opera scritta che si trova per le mani. Molti, dopo aver letto l’incipit di un libro, decidono se comprarlo per continuare a leggerlo, oppure rimetterlo sullo scaffale del libraio. La “carta da visita” (direbbe Ezra Pound) di questo volume pieno d’amore e d’amarezze - come lo è il mare -, possiamo dire coincida con il primo racconto Bouganville, che è un piccolo gioiello, un inizio da studiare a scuola, riga per riga, perché nei pressi di quella “sensuale esplosione di rosso” scorrono i cento canali dell’essenza lucana: i nomi dei poeti massimi, nostri, i nomi dei popoli antichi, i luoghi dell’alta (o altra) Italia; e fluiscono i mille rivoli dell’esistenza umana: la tenerezza, la morte, il conflitto generazionale, la persuasione che la vita è fatta di svolte, la percezione del “sé” fino a farne un modello, oggettivato eppure interiore, intimo eppure purissimo programma epistemologico: vivere per somigliare all’idea di sé cresciuta nella mente, idea che “non è la semplice somma di quel che è accaduto negli anni”, ma “l’essenza”, quella che, secondo Aristotele, è ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa. E se i Greci dicevano "conosci te stesso e diventa ciò che sei", Nietzsche suggeriva che questo è il compendio di ogni sapere: tutta la scienza consiste nel “conosci te stesso"; qui la Linda di Agnese Ferri ci dice che una volta percepita la propria essenza occorre realizzarla, perseguirla come un programma, farne un imperativo esistenziale; la motociclista di 2 curve, galleggiando “in questo mare di niente” avverte a un tratto, nel profondo, che libertà è “essere chi vogliamo e cioè chi siamo davvero” e soprattutto “la libertà di non essere più ciò che si è stati”. Perché identità è libertà; e la libertà è fatica. La libertà è scegliere, come fa la giovane Luna de Il lido, un racconto in cui la malinconia cresce nell’aria con la semplicità delle piante spontanee.

Pagina dopo pagina entriamo nei luoghi e nella mente delle persone che li attraversano; fra le cicale incontriamo la calura, la sabbia, gli umori umani, le palizzate di fichi d’india, le case. E i colori, quelli che portano al lettore la spezia dell’originalità come in Grano e Lavanda. Esistono tanti tipi di amore, vi si spiega, ciascuno ha un suo colore, possiamo consultare il catalogo che un immaginario imbianchino ci mostra per dipingerci la casa; “Signora, scelga fra questi” e dopo giungere a dover ridare il bianco, se, come in amore, si sceglie un colore sbagliato.

Il Blu domina. La casa blu, i capelli blu, il ragazzo blu, la bambina Azzurra e il colore del mare che esplode anche dietro il grigio di una mandria di vacche sdraiate al sole. Ci immergiamo nel mare che riempie col suo sale queste pagine, testimone muto e immanente di vicende umane minute eppure universali, un mare che a volte sembra vuoto come le case dei nostri paesi con “i cartelli di affittasi e vendesi che sbiadiscono al sole”; che a volte sembra intervenire come il Coreuta nella tragedia: “Ci pensi a quanto sono diverse le cose su una riva da come lo sono sull’altra: eppure il mare è lo stesso,” dice il narratore della danza tragica intitolata Serra Marina; a volte è color dell’alluminio, come l’angoscia.

Serra Marina un racconto magistrale il cui pathos arde in frasi misurate e semplici; qui la Τύχη ineluttabile passa come la marea e il caso che domina l’universo diviene necessità. E morte.  

Si dipanano cento vite fra queste pagine, cento svolte, esistere significa scegliere, e partire e avere nell’anima quella postura del ricordante che è l’asse di ogni narrare, il perno delle “Storie della Vita” di Pietro Clemente.

Pensavo che fra queste pagine corrono e vivono i colori, netti come note sul pentagramma, e si può sentire la grana grossa della sabbia, e si avvertono gli odori - evocativi: quello della lavanda, che porta la mente indietro negli anni e diviene l’odore della nostalgia, quello del mare e quello dei vestiti, sempre lo stesso, odore di perduto, se ci passi un sasso sopra, come in Polvere d’ossa.

E pensavo, infine alla poesia di Franco Fortini.

 

Quando da qui si guarda l’età del passato

veramente diventa possibile l’amore.

Mai così belli i visi e veri i pensieri

come quando stiamo per separarci, amici.

Esercizio della ragione e sentimento

sono due cose e vivacemente si legano

come la rosa è forma di mente e stupore.

 

Questo Jonio non l’ho conservato ancora sullo scaffale della letteratura italiana fra quelli della Ferrante e quelli di Flaiano, me lo tengo ancora un po’ qui, fra le carte, a portata di mano, ché ci devo trovare ancora altre cose da pensare. 




 

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