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giovedì 29 dicembre 2022

Malafemmena - intervista di Claudia Crocchianti a Costantino Dilillo

 https://www.nuovepagine.it/2022/11/intervista-a-costantino-dilillo/

Intervista a Costantino Dilillo

In quest’ intervista lo scrittore Costantino Dilillo ci racconta del suo libro Malafemmena dove al centro vi è la violenza di genere nelle canzoni italiane. Un libro importante è che svela delle curiosità rilevanti. 

Come è nata l’idea di scrivere il libro Malafemmena
Mi capitò di guardare il video clip di alcune canzoni TRAP che mi colpirono per la crudezza delle immagini e la volgarità delle parole. Osservai che con impressionante disinvoltura vi si rappresentava violenza e in alcune addirittura si narrava l’assassinio di una donna. Mi tornarono in mente altre canzoni che raccontavano femminicidi e decisi di farci un articolo per il giornale on line sul quale scrivo spesso. Il materiale che raccolsi sul tema era talmente ampio che l’articolo divenne il libro che la casa editrice Edigrafema di Matera ha voluto pubblicare. Il mio testo è accompagnato in appendice da due brevi interventi della psicologa Patrizia De Luca e della sociologa Maria Bubbico.


Violenza di genere nelle canzoni italiane, qualche esempio?
Ne ho ritrovate molte, non solo nei recenti repertori Rap, ma anche fra le canzoni della tradizione popolare del primo Novecento, come “Tutti mi chiaman Mario, ma son Marino”, o della goliardia quale “Natascia”, ma anche fra quelle dell’avanspettacolo, e della canzonettistica più comune interpretate da Big come Celentano e Adamo, e finanche nelle antologie dei più raffinati cantautori, come Cocciante, Endrigo. 

Violenza di genere, purtroppo un tema ancora attuale: come mai?
L’argomento è assai vasto, nel mio Malafemmena tento di tracciare un percorso ricognitivo del pregiudizio misogino che è alla base della violenza sulle donne analizzando i testi delle canzoni ma anche pagine di psicanalisti, libri di padri della chiesa, testi filosofici, trattati di igienisti nazisti, capitoli di scritture considerate sacre. L’esercizio materiale di gesti violenti e del femminicidio non sono gesti isolati e provati, ma la manifestazione fenomenica di una cultura millenaria di discriminazione verso la donna che si vuole debba rimanere oggetto di proprietà dell’uomo il cui “onore” si ritiene debba essere strettamente legato alla capacità di “possedere” e sottomettere una donna. La rivendicazione di indipendenza, l’esercizio della scelta da parte di una donna, l’abbandono  è vissuto con forte disagio sociale e impatto emozionale e, nelle personalità maschili più fragili, diviene la proclamazione demascolinizzante di una inadeguatezza non solo erotica ma anche sociale, per cui quella donna diviene Vipera, Malafemmena, torturatrice, malvagia come una serpe da schiacciare, e il femminicida si sente vittima e dalla parte della ragione, e sente, crede che la cultura popolare, il comune sentire siano dalla sua parte.        Introduco le mie riflessioni citando un proverbio attribuito alla antica saggezza cinese: “quando torni a casa, picchia tua moglie, tu non sai perchè ma lei sì”. Il pregiudizio verso la donna, la convinzione che sia impura, peccatrice, corruttrice, menzognera e traditrice è emerso continuamente in molte delle canzoni che abbiamo ascoltato e cantato negli anni; queste canzoni sono uno spaccato della mentalità misogina che, malgrado le conquiste del secolo scorso, ancora sopravvive in una società che abdica al mercato il compito di fornire una educazione sentimentale e sessuale ai ragazzi avendo nelle sue corde ancora forte la ideologia della verginità, della sottomissione, della funzione riproduttrice assegnata alla donna quale sua unica funzione sociale dalla mentalità della tradizione patriarcale e clericale. I diritti sin ora conquistati faticosamente dalle donne sono continuamente in discussione e ci sono forze che vogliono fortemente riportare indietro le lancette della storia, confortate da vecchi e nuovi integralismi. 

Quando è nata la sua passione per la scrittura?
Scrivo da sempre racconti, poesie, romanzi, testi per il teatro. MALAFEMMENA è il primo saggio.

Il pubblico come sta rispondendo a questo suo libro?
Devo dire che il testo sta suscitando molto interesse e si sta diffondendo grazie a un attento e significativo passa parola.  

Prossimi progetti?
È da poco uscito il mio ultimo romanzo, I misteri delle cento caverne edito da Giannatelli di Matera e, studioso della “natura umana” coltivo il vizio pavesiano di leggere e di scrivere. 



domenica 18 dicembre 2022

Jonio di Agnese Ferri


Questa deliziosa suite intitolata Jonio mi fa pensare a molte cose.

Fra l’altro alla sobrietà.

Ma innanzitutto al fatto che non avevo mai usato prima di oggi, riferendolo a un libro, l’aggettivo “delizioso”; la parola viene dal latino lacere che vuol dire attirare, attrarre, allacciare. Appunto. È quanto accaduto fra me e questo volumetto di Agnese Ferri edito da Edigrafema a marzo di quest’anno.

E mai prima d’ora avevo pensato che un libro potesse essere - più che una raccolta, più che una antologia -, una suite.

Sì, una suite, quelle della musica barocca, intese come articolate composizioni di danze con tempi diversi, arie, sarabande, adagi, allegri, giga, però concatenate da una sequenza narrativa che le accomuna. Sì, anche quelle del “progressive rock” degli anni 70: le suite dei Pink Floyd, dei King Crimson, dei Genesis, dei Procol Harum.

Jonio è una suite letteraria, un complesso di racconti correlati non solo dal mare, ma dalla postura della narratrice che trae da brevi spaccati di vite umane la cifra della nostalgia e del mistero a volte doloroso dell’esistere e, gli occhi fissi sul passato e sul presente, come l’Angelus novus di Paul Klee, volge le spalle al futuro verso il quale corre. Si dice in Jonio: la strada mi ha portato qui. “Ora che sono arrivata voglio dimenticare la strada”. Ma a volte non si parte: “Questa terra mi cresce dentro”, si dice anche, quando si decide di non lasciarla. Oppure la si lascia. E dentro rimane, questa terra, questo mare: anche se si è lontani.

A queste cose pensavo. E pensavo al mare, ovviamente. E alla pittura. Pensavo alle pennellate brevi degli impressionisti, al loro giustapporre i colori puri per esaltare la luce: pensavo a Manet. E pensavo alle case blu inondate di sole.

In fondo le arti hanno questo in comune: è la scelta dei colori, delle note o delle parole a comporre l’immagine, è il loro rispettivo ritmo a plasmare nella nostra mente la disposizione empatica che ci conduce al riso o alla commozione o alla percezione astratta di ciò che da impalpabile, diviene, nei nostri neuroni, cibo per la mente; la loro sequenza ha il potere, nell’insieme, di richiamare dalla testa il nostro sentire più profondo, rendendoci partecipi di drammi, passioni, sentimenti vaghi, posture dell’animo la cui voce trova risonanze profonde dentro di noi. Se questo accade, quando questo accade, parliamo di arte.

E con Jonio, accade: “Al mercato Linda sta parlando con una ragazza, compra la frutta. Vicino a me un anziano signore nella sua giacca di cotone parla al telefono e chiede dei fiori”.

Impressionante. Impressionismo. In un rigo e mezzo c’è una storia intera, cinque personaggi, forse sei; quattro azioni, un luogo pieno di gente, cinque oggetti che veicolano l’azione umana. La scena si compone lentamente, ne vediamo le luci, ed entriamo nelle intenzioni di ciascuno, siamo nei panni di ciascuno, quella scena di vita, a colori vividi, è indelebilmente dipinta nella nostra mente, un pezzetto alla volta. 

La lettura dell’incipit di un’opera è comunemente considerata la chiave con cui il lettore accede alle segrete stanze dell’opera scritta che si trova per le mani. Molti, dopo aver letto l’incipit di un libro, decidono se comprarlo per continuare a leggerlo, oppure rimetterlo sullo scaffale del libraio. La “carta da visita” (direbbe Ezra Pound) di questo volume pieno d’amore e d’amarezze - come lo è il mare -, possiamo dire coincida con il primo racconto Bouganville, che è un piccolo gioiello, un inizio da studiare a scuola, riga per riga, perché nei pressi di quella “sensuale esplosione di rosso” scorrono i cento canali dell’essenza lucana: i nomi dei poeti massimi, nostri, i nomi dei popoli antichi, i luoghi dell’alta (o altra) Italia; e fluiscono i mille rivoli dell’esistenza umana: la tenerezza, la morte, il conflitto generazionale, la persuasione che la vita è fatta di svolte, la percezione del “sé” fino a farne un modello, oggettivato eppure interiore, intimo eppure purissimo programma epistemologico: vivere per somigliare all’idea di sé cresciuta nella mente, idea che “non è la semplice somma di quel che è accaduto negli anni”, ma “l’essenza”, quella che, secondo Aristotele, è ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa. E se i Greci dicevano "conosci te stesso e diventa ciò che sei", Nietzsche suggeriva che questo è il compendio di ogni sapere: tutta la scienza consiste nel “conosci te stesso"; qui la Linda di Agnese Ferri ci dice che una volta percepita la propria essenza occorre realizzarla, perseguirla come un programma, farne un imperativo esistenziale; la motociclista di 2 curve, galleggiando “in questo mare di niente” avverte a un tratto, nel profondo, che libertà è “essere chi vogliamo e cioè chi siamo davvero” e soprattutto “la libertà di non essere più ciò che si è stati”. Perché identità è libertà; e la libertà è fatica. La libertà è scegliere, come fa la giovane Luna de Il lido, un racconto in cui la malinconia cresce nell’aria con la semplicità delle piante spontanee.

Pagina dopo pagina entriamo nei luoghi e nella mente delle persone che li attraversano; fra le cicale incontriamo la calura, la sabbia, gli umori umani, le palizzate di fichi d’india, le case. E i colori, quelli che portano al lettore la spezia dell’originalità come in Grano e Lavanda. Esistono tanti tipi di amore, vi si spiega, ciascuno ha un suo colore, possiamo consultare il catalogo che un immaginario imbianchino ci mostra per dipingerci la casa; “Signora, scelga fra questi” e dopo giungere a dover ridare il bianco, se, come in amore, si sceglie un colore sbagliato.

Il Blu domina. La casa blu, i capelli blu, il ragazzo blu, la bambina Azzurra e il colore del mare che esplode anche dietro il grigio di una mandria di vacche sdraiate al sole. Ci immergiamo nel mare che riempie col suo sale queste pagine, testimone muto e immanente di vicende umane minute eppure universali, un mare che a volte sembra vuoto come le case dei nostri paesi con “i cartelli di affittasi e vendesi che sbiadiscono al sole”; che a volte sembra intervenire come il Coreuta nella tragedia: “Ci pensi a quanto sono diverse le cose su una riva da come lo sono sull’altra: eppure il mare è lo stesso,” dice il narratore della danza tragica intitolata Serra Marina; a volte è color dell’alluminio, come l’angoscia.

Serra Marina un racconto magistrale il cui pathos arde in frasi misurate e semplici; qui la Τύχη ineluttabile passa come la marea e il caso che domina l’universo diviene necessità. E morte.  

Si dipanano cento vite fra queste pagine, cento svolte, esistere significa scegliere, e partire e avere nell’anima quella postura del ricordante che è l’asse di ogni narrare, il perno delle “Storie della Vita” di Pietro Clemente.

Pensavo che fra queste pagine corrono e vivono i colori, netti come note sul pentagramma, e si può sentire la grana grossa della sabbia, e si avvertono gli odori - evocativi: quello della lavanda, che porta la mente indietro negli anni e diviene l’odore della nostalgia, quello del mare e quello dei vestiti, sempre lo stesso, odore di perduto, se ci passi un sasso sopra, come in Polvere d’ossa.

E pensavo, infine alla poesia di Franco Fortini.

 

Quando da qui si guarda l’età del passato

veramente diventa possibile l’amore.

Mai così belli i visi e veri i pensieri

come quando stiamo per separarci, amici.

Esercizio della ragione e sentimento

sono due cose e vivacemente si legano

come la rosa è forma di mente e stupore.

 

Questo Jonio non l’ho conservato ancora sullo scaffale della letteratura italiana fra quelli della Ferrante e quelli di Flaiano, me lo tengo ancora un po’ qui, fra le carte, a portata di mano, ché ci devo trovare ancora altre cose da pensare. 




 

venerdì 31 dicembre 2021

Mi comanda il pane

Fresco dal seme eppure antico sfoggia

la vita nelle lamine leggere

e d'improvviso la mente si sveglia

da un brutto incubo durato un anno.

 

L’albero invincibile sempre cresce

proteso nello spazio della vita,

mi promette il latte che mi nutrirà

e mi comanda il pane dell'amore.


lunedì 6 dicembre 2021

Giorni felici



Bacco tabacco foto e caffeina
vizi antichi del secolo passato
posarono insieme per una foto
meccanica figura della gioia.

Giorni felici, dice l'omino in bici,
la scimmia a corda ride e batte i piatti
e la pantera sale sul pennone
a sventolare un drappo rosso-gioia.

Cento ASA Ilford stampa su carta
luminescente lampo dei vent'anni
conservati nel fondo della moka,
e ancora se ne sente l'odore
in certe sere di fantasmi nudi.

lunedì 1 novembre 2021

un anno



 UN ANNO

Dal pendolo forse non si esce mai
la testa si sforza il cuore pompa,
scoppiano corvi, nero dentro il nero.
Ora la gabbia antica dell'inganno
stringe le sue maglie ferrigne sbarre,
la mente ruota persa negli sbalzi
e non trova l'argine non l'approdo,

né l'uscita né la via né ritorni,
non avanti e neppure indietro:
è meglio amputare per salvarsi
oppure reggere e forse crepare?
Abbandonare il campo per scordare
o adeguarsi e far finta di nulla,
mentre la morte ti mangia da dentro?

domenica 26 settembre 2021

L'anno ripiega

“All’ombra di me” di Antonella Ciervo - Edigrafema editore, 2021


 Twilight.

A metà della lettura di questo strano libro mi si è ficcata in mente questa parola inglese.

Twilight.

Alba o crepuscolo che voglia dire, la parola indica un confine, un territorio incerto dove non è ancora notte ma non è più giorno, dove coabitano due luci, dove non è ancora giorno ma già non è più notte.

Anceps.

Anceps diceva Orazio di se stesso e della Lucania, cioè bifronte, a due teste, regione portatrice, ora come allora, di almeno due culture; ma il termine vuol dire anche incerto, e ancora vuol dire indeciso e poi anche rischioso. E sospeso. Come sospeso a volte sembra essere il tempo, se contato fra le pagine di questo bel libro.

Anceps e twilight, mi sono venuti alla mente e così sono tornato indietro nelle pagine per ritrovare la traccia del passaggio che mi ha fatto apparire in testa queste vecchie parole: ma senza esito.

Forse è l’intero libro che suggerisce il concetto di bordo, il confine, la duplicità dell’esistere, la compresenza nella mente di ciascuno di ciò che è la realtà, o meglio, di ciò che si crede sia la realtà, e di ciò che si pensa possa essere, e di ciò che si crede debba essere e… e siamo già fuori di ogni dicotomia possibile per smarrirci nella molteplicità di ciò che la mente elabora e sente, con le complicanze che vengono dal considerare che il “sentire” e l’umore, inevitabilmente condizionano la percezione e qui il bandolo della trita matassa rischia davvero di smarrirsi.

“Il mondo è attraente per le sue infinite piccole cose”, fa dire l’Autrice al protagonista a pag. 38, e queste si trasmutano e dalla stanza di un sogno passano a un altro sogno, usando la realtà come mero corridoio di collegamento fra le “fermate” che scandiscono questo originale “viaggio” che Marco compie fra le mille stanze della rilettura del reale.

Esperimento non frequente e non facile – lo fa di recente Carofiglio a sessi inversi – è quello, intrigante, di una scrittrice che si mette nei panni di un protagonista maschile riuscendo a delinearne credibilmente i tratti tipici dell’altro genere. Ad Antonella Ciervo, nel suo ultimo romanzo, l’indossare vesti altrui riesce molto bene e il profilo maschile è verosimile e chiaro;, solamente il sogno di pagina 46 rivela sotto la lente psicoanalitica che si tratta del sogno di una donna che nel simbolo della “scalinata ripida e aperta sul vuoto” teme, stringendosi alla madre, di avventurarsi nel nulla, e la simbologia evocata torna funzionale alla suggestione complessiva che le pagine donano a chi legge.

Marco, il protagonista, non ha timori consci, solo sembra rimpiangere un’epoca in cui “esprimere opinioni era un modo per entrare in contatto con altre persone” (p. 54), mentre al presente egli capisce che in certi momenti “il silenzio è l’unico aiuto vitale di cui si ha bisogno”: (p. 61) e la solitudine assoluta l’unica dimensione esistenziale possibile. Lasciarsi alle spalle tutte le certezze di una vita borghese per buttarsi nella vita randagia di un barbone affamato – sporco e infreddolito nelle strade incattivite della fame e della emarginazione, della follia, a volte -, l’unico percorso possibile.

Il lungo viaggio del protagonista, insomma, in un mondo esteso dove le piccole cose si fanno simbolo, è la traccia pensosa di una ricerca di senso concreto, e le anime incontrate, viste o solo percepite nell’ombra, sono il controcanto corale della commedia umana che si dipana da millenni e che se non ci fosse qualcuno a raccontarla, neppure esisterebbe.

Ciervo, in questo romanzo parla di confine, di doppia luce, di bordi luminescenti, di volti polivalenti e nel mentre varca il confine che dalla cronaca di una fuga porta alla letteratura, ci invita a soffermarci sui dettagli dell’esistenza che, infine, sono l’ossatura vera dell’essere qui per qualche tempo, dicendoci che, in fondo, letteratura forse è proprio questo, il mescolarsi continuo nelle pagine di ciò che è, di ciò che sembra a chi scrive, di ciò che al lettore giunge; direi addirittura che chi legge, decifrando quei caratteri, sta a sua volta scrivendo quel libro che crede in quel momento di star solo leggendo, così che ciascuno trae da queste pagine propri e speciali saggi di umanità.

Magia dell’arte. Magia della parola scritta. Magia del narrare. E Ciervo possiede un bel po’ di questa magia.

martedì 13 luglio 2021

ABS - di Bartolomeo Smaldone


  

Bartolomeo Smaldone, poeta e scrittore di origini irsinesi, dal forte impegno umanitario e sociale, nel 2017con Eretica Editore ha pubblicato un intrigante libriccino intitolato ABS, evidente acrostico di “Apparente Buona Salute” che compare infatti come sottotitolo, ma io sospetto, conoscendo un po’ l’Autore, che BS siano le sue iniziali e che la A sia abbreviazione di un suo misterioso secondo nome, o stia magari per Arcano, o forse, meglio, per Affabulazione, e, anzi, propendo davvero per quest’ultima ipotesi, visto che di affabulazione sono piene le pagine di quel piccolo grande libro che è ABS e che quindi, affabulatore, sia perfetta apposizione al nome dell’autore in questione.

ABS

"Questa vicenda è fatta di sogno e si svolge nel sogno quindi di notte, quando l'umanità si ferma.”

Cosi comincia il XIII racconto dei 17 che ABS secerne. Sì, secerne, perché riduttivo sarebbe l'usare il verbo contenere, né è adeguato il verbo raccogliere, perché le immagini e gli spiriti dell'umano emergono dalle pagine proprio come se vi fossero qui prodotte, in continua distillazione di pensiero.

Il sogno, Smaldone lo evoca già in esergo citando Juan Rulfo Pedro Paramo, e lo dipana in ogni pagina scritta con gli occhi delle persone che le abitano, quelle pagine: non personaggi, ma persone. Vive, vere, sfumate fra le caligini tipiche del sogno, ma autentiche, immerse nella dinamica sociale di cui si perde il bandolo.

Colpisce subito la lingua di Smaldone, un italiano perfetto e concreto, chirurgico e semplice, che dice ma anche evoca e rimanda, e ogni frase è un aforisma, ogni riga una storia costruita col vocabolario ampio e noto, selezionato ma non rarefatto, di chi sa scrivere davvero, di chi sa leggere per davvero le pagine di carta e le pagine del sogno dai cui meandri sembrano spuntare i protagonisti di piccole vicende che di magico hanno il potere di condurre il lettore dalla dimensione della fantasia al concreto dell’esistere, ai rovelli e alle frizioni tra classi sociali e dove la banalità dell’oggi, come il PIN e il PUK , dalla telefonia assurgono alla decodificazione del mistero supremo della sedazione intellettiva delle masse che fa comodo al potere.

La poesia che abita stabilmente nei versi di Bartolomeo Smaldone poeta, ribolle anche fra queste pagine che, ufficialmente, nascono per narrare. Simbolismi e dimensioni surreali riconducono il lettore ia problemi concreti dell’esistere e della convivenza, alla ingiustizia sociale, alla vita vissuta come continua lotta per la libertà e contro la prepotenza di pochi. Qui, chi usurpa e si impossessa di ogni cosa viene ancora chiamato “padrone”, l’appellativo che spetta a chi sfrutta il lavoro delle moltitudini di persone senza nome, contraddistinte solo da un numero. Qui si canta la morte della politica, la assuefazione di massa al potere condiviso e mediato dal clero per il quale, la subordinazione ai potenti è virtù e il pensiero, il peccato massimo.  Qui si rammenta il degrado dell’umanità che sconta il terrazzamento sociale delle vecchie caste che oggi sembrano avere nomenclature nuove: non più padroni, ma miliardari VIP, non più plebaglia-carne-da-fatica-e-da-cannone, ma “consumatori”.

Questo libriccino apre la mente e per gustarlo al meglio suggerisco, come l’autore stesso in fondo si aspetta che tutti noi si faccia, di cominciarne la lettura al contrario, dalla nota di pagina 75 e indietro, un racconto alla volta.

Fatelo presto, io ci ho messo tre anni per scoprirlo, e un giorno per leggerlo, con tante pause, e vi invito a non ripetere il mio errore: non aspettate tre anni, ora sapete che esiste e procuratevelo subito.

P.S.

Cosa volete da me? Chiede Smaldone quasi in coda ai suoi racconti. Cosa vi aspettate da me? Ah, sì lo so, voi volete che io scriva.

Ebbene sì: caro Bartolo, poeta e scrittore del realistico sogno che è la vita, è proprio così: noi tutti vogliamo che tu scriva ancora.

Grazie, Bartolo.

 

domenica 31 gennaio 2021

Per ischerzo - di Bartolomeo Smaldone

 

No, non voglio scrivere sulla poetica di Bartolomeo Smaldone, né sulle sue iperboliche filastrocche che trova Sotto la panca, né sui suoi versi appassionati, e neanche sul suo impegno civile e non mi sogno neppure di citare i suoi Spiragli di chiarore nell’oscuro tremore del nulla che ci circonda, quella luce sua che come un piccolo faro illumina, racconta e passa oltre, ma ha lasciato il segno sul Vento e sul Rovescio della medaglia; non voglio parlare delle immagini che scorrono fra le sue parole di testa di cuore di fegato, come nella magia di un film, come nella nebbia del mattino presto, quando gocce del giorno che viene riflettono la luce come stelle, né tantomeno voglio dire che Bartolo è un poeta vero – affrancatemi! direbbe Bartolo stesso quando si corica nella sua lampada -, affrancatemi, non è il momento adatto e neppure ne ho voglia – ho solo un attimo per godere l’attimo -, francamente, la mente franca da ambasce e da ricordi che hanno il numero atomico alto come il cadmio, adesso proprio non posso farlo.

Ho da fare, dico sul serio, non per ischerzo, ma davvero, dico di no e non lo faccio.

No.

Non ne parlo e non ne scrivo.

Se proprio si insiste, qui, di domenica piovosa, be’ allora, magari, se proprio devo, magari nomino quel delicato-delirante-divertente-dissacrante – tutto per D - libriccino che Bartolo ha intitolato PER ISCHERZO, edito da Alcesti lo scorso dicembre, per dire che è tutt’altro che uno scherzo, quel pacchettino di pagine, per dire che là dentro ci sono una cinquantina di piccole bombe a mano di intelligenza e umorismo - che poi è la stessa cosa – pronte a brillare alla base del nostro convenzionale senso comune, delle nostre granitiche certezze; quarantasei provocazioni per 46mila pensieri che, vedrete, volano fuori dallo scritto e si spandono nell’aria sopra la poltrona come un buon fumo.

Leggetelo. 

Per parte mia, assieme a lui, a pagine 39 prometto anch’io – e giuro - che sarò fedele. Sempre. Solo che … a pensarci: aver trovato questo PER ISCHERZO è il segno finale della mia infedeltà… alla cattiva sorte: a volte la tradisco con la buona.

Grazie Bartolo. Sei grande.

giovedì 10 dicembre 2020

il bus numero 6/a















periferia è portare intorno
periferia è lui rosso e grande
balena con la pancia affollata
vite in transito i soldi contati
le buste fra le braccia al ritorno
e le rape sembrano garofani

martedì 22 settembre 2020

"Oppure" - racconti di Costantino Dilillo - Edigrafema editore

 

Edigrafema, affermata cooperativa editrice fondata da Antonella Santarcangelo, è ormai una bella realtà editoriale; sul suo sito leggiamo che nasce come uno speciale circolo di scrittori e lettori e creativi, e che molte delle opere editate sono state premiate in prestigiosi concorsi letterari.

Oggi, nella collana di narrativa “luciincittà”, Edigrafema pubblica i nuovi racconti di Costantino Dilillo, raccolti in un elegante volumetto intitolato “Oppure”.

  ….  … … … … …  ….

INTERVISTA all’autore Costantino Dilillo apparsa su Giornalemio.it :

https://giornalemio.it/cultura/ve-la-racconto-tra-i-racconti-il-ritorno-di-costantino/


Notiamo che l’illustrazione di copertina, “Borgo vecchio”, è un disegno dello stesso Costantino.

Ma no, non sono un pittore. Faccio qualche disegno ogni tanto, un vizio preso a scuola e proseguito negli anni nelle lunghe riunioni di lavoro. Tutto qui. Ah, certo, disegno i personaggi stralunati delle mie vignette, sì, ma per il resto preferisco dipingere con le parole.

Dopo quasi dieci anni torni in libreria con una tua opera di narrativa. Perché tanti anni di assenza?

Beh, ho fatto altre cose: ho scritto testi per rappresentazioni teatrali, pubblicato due libri di poesie, scritto racconti usciti in diverse antologie, due, tradotti in greco, sono in via di pubblicazione ad Atene. Cose così. E fotografie. E lunghe camminate.

Sono grato a Edigrafema per aver voluto proporre ai lettori i miei nuovi racconti.

 

Oppure è un titolo insolito: da dove viene?

 

Domanda delle cento pistole. “Oppure” è una parola magica, è un ossimoro per definizione, è una congiunzione-disgiuntiva, separa cioè quello che allo stesso tempo congiunge, è una parte del discorso che suggerisce un’alternativa alle verità comunemente accettate. Affascinante, no?

 

Che ci sta dentro questo nuovo libro, allora?

 

Ci sono undici racconti che vengono da epoche ed elaborazioni differenti. Se al romanzo viene richiesta unità di stile e di ispirazione, i racconti sono - forse devono essere - isole di emozioni a sé, compresse di pensiero indipendenti, ma capaci di evocare riflessioni, ricordi, idee, emozioni forti, che poi sono la sostanza dell’esistere. E del narrare. E forse esistere e narrare sono la stessa cosa. I miei personaggi, a volte, sono paradossali, grotteschi, ai limiti del caricaturale, come nella vita del resto, se la guardiamo da una certa angolatura; ma credo rimangano perfettamente aderenti a profili umani concreti. L’approccio è abbastanza divertito e il lettore potrà trovare sempre sotteso alle situazioni che racconto un umorismo, magari freddo, ma efficace.

 

C’è qualche racconto autobiografico in Oppure?

 

Personaggi e intrecci sono tutti frutto di fantasia, quello che c’è di reale è sempre il contesto storico; le coordinate esistenziali dei personaggi e del loro agire sono rigorosamente realistiche. Direi piuttosto che li potremmo considerare una sorta di “biografia” collettiva, uno spaccato di un certo Novecento le cui contraddizioni ci vengono attraverso gli occhi dei protagonisti, che in alcuni racconti sono dei bambini, in altri sono esemplari adulti della nostra umanità: noi stessi.

 

Insomma, il libro ha una impostazione storica?

 

In alcuni brani c’è effettivamente una ricostruzione storica anche filologicamente accurata del contesto, ma nel complesso del libro prevale il divertimento, l’ironia anche salata verso l’ottusità, la aridità d’animo di chi detiene il potere, verso le miserie umane che si fanno regime. In altri emerge il pessimismo verso una realtà dominata dalle leggi del mercato che tendono a ridurre tutto alla univoca voce ragionieristica della domanda e dell’offerta, che portano alla fungibilità dell’uomo, sostituibile a comando come una candela del motore a scoppio. In altri erompe la favola di stampo classico, con protagonisti animali e la “morale” esplicitata nel finale; in altri ancora la fantasia corre sul filo del divertimento e della meditazione.

Non mancano notazioni esistenziali e c’è finanche un racconto d’amore.

 

Insomma cosa vuole dirci “Oppure”?

 

Messaggi in bottiglia? Non è il mio mestiere né il mio gioco, non sono filosofo, racconto con accenti diversi quella che Heidegger chiamava la vita banale, o meglio “la vita inautentica”, l’esistenza nel mondo nel quale siamo stati gettati a vivere (geworfenheit), fatta di conformismi, chiacchiere, pregiudizi, coazione a fare esattamente quello che fanno tutti gli altri. Nelle pagine di Oppure l’infanzia è l’unica fase della vita umana in cui ci si avvicina alla vita autentica, quella che ci vede e ci rende capaci di opporci davvero al conformismo, all’abitudine, alla irragionevole omologazione delle menti. Ma non sempre, purtroppo: il conformismo non ha età e questo magari è un dato antropologico, prima che comportamentale. E queste differenze sono forse il sale della vita.

 

E quindi in fondo Oppure è un libro filosofico.

 

I filosofi tedeschi sono lontani, cupi e… invernali; la mia formazione è mediterranea e rimango fondamentalmente fedele al bambino che fui, curioso e attento alle cose del mondo. In fondo, cerco di raccontare quello che vedo, quello che mi diverte, quello che mi fa arrabbiare, a volte per riderne con chi legge, a volte per riflettere, a volte solo per giocare.

 

Ultima domanda: tu hai pubblicato dieci anni fa “Un greto di ciottoli” il primo giallo in assoluto ambientato a Matera: a quando un’altra indagine del tuo Pasquale Scanzano?

 

Il giallo di qualità, è un genere che amo molto perché è un passpartout. Attraverso l’intrigo da dipanare, il lettore è accompagnato a riflettere su mille aspetti dell’esistenza umana. Vedremo. L’idea c’è, qualche pagina pure. Chissà.

 

Corriamo in libreria a prendere la nostra copia di “Oppure”.

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Pubblicazioni di Costantino Dilillo

 

Romanzo

·       UN GRETO DI CIOTTOLI – 2010- edizioni BMG

Racconti:

·       PRESTO – 1990 – Il Salice editore – “Premio Calabria ’79 Riviera del sole”.

·       CITTA’ CALVA – 1997 – edizioni PALOMAR - Bari

·       NUOVE LEGGENDE LUCANE – 1999 – edizioni BMG - Matera

·       180 – I GARANTI – 2002 – Nobile editore - Montescaglioso

·       PISTACCHI & FROTTOLE – 2005 – BMG Matera

Racconti in antologia:

·       PARTENZE DA FERMO – 2007 – Edizioni Libreria dell’Arco – Matera A cura e prefazione di Costantino Dilillo, 2 racconti.

·       A LAVORO CI DEVO COMUNQUE ANDARE – 2009 – Altrimedia edizioni – prefazione di Gaetano Cappelli

·       CAMERE CIRCONDARIALI – 2011 - Giannatelli editore.

Poesie:

·       TELE DI RAGNO – 1978 - edizioni Gabrielli - Roma

·       ANIME FOSSILI – Antezza Editori MT – 2017

·       GREGGI DI GINESTRE – 2019 - Edizioni Il Faggio – Milano – Menzione speciale della giuria al Premio EquiLibri – Assoc. Piazza Navona 2019.

Drammaturgia Teatro:

·       A-HUM SPECCHIO D’AMORE – 2006 – rappresentato a Parma e a Matera

·       I PREDATORI DELLE TRE PORTE – 2015 – rappresentato a Milano Expo e a Matera

·       PICCIANELLO CROCEVIE – 2016 - rappresentato a Matera

Reading musicato:

·       AMORE FERMATI – e altre storie 2016 - 2017

·       FIUME – al Forum “la via d’uscita” – 2016


SAGGIO antropologico a cura di Costantino Dilillo

·       Irsina - Credenze, usanze tradizioni - 2014 – Giannatelli editore, Matera.

 

Ø Due racconti tradotti in greco sono in via di pubblicazione ad Atene.