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sabato 14 settembre 2019

Leopardi censurato: dalla parte delle donne parla di aborto

 Dopo 200 anni Leopardi rimane l'unico poeta italiano ad aver mai preso le parti di una donna vittima della superficialità dell'amante, e vittima anche dei pregiudizi borghesi, dei divieti papali, della mentalità misogina e ristretta dello Stato Pontificio.
Leopardi dedica questo canto a alla tragica morte di una donna di 23 anni che in assenza del marito lontano da mesi, viene sedotta da un uomo che le parla di amore. Quest'uomo è il padrone di casa o forse lo stesso chirurgo al quale il marito, fiduciosamente ha raccomandato la moglie ingenua e inesperta. L'uomo frequenta assiduamente la casa della signora e la donna di servizio osserva che si trattiene spesso con lei chiuso in camera per molte ore. Appreso che la donna è rimasta incinta, per soffocare lo scandalo, con l'inganno, l'uomo le pratica un sanguinoso aborto al quinto mese di gravidanza. La donna muore per la rozzezza dell'intervento eseguito clandestinamente del medico-macellaio. 
Vittima due volte. 
Il chirurgo, sposato e con due figli, venne arrestato e processato, ma poi la corte ritenne inattendibile la testimonianza della cameriera: una donnetta, appartenente al sesso debole e di basso ceto sociale, - povera e per giunta donna - non può essere credibile. Il tribunale infine assolse il chirurgo seduttore macellaio sentenziando che questi voleva solo aiutare una donna di dubbia moralità e ne era rimasto vittima.
Leopardi però subì la censura su questo suo lavoro che, come tutto il suo pensiero, era fortemente progressista; inviò al suo editore e ad altri lettori questo componimento assieme al canto "Ad Angelo Mai", ma questa poesia, per ordine di suo padre, nel conformista e reazionario stato pontificio, non venne mai pubblicata.

La poesia è complessa e terribile.


Nella morte di una donna 

fatta trucidare col suo portato dal corruttore 
per mano ed arte di un chirurgo.

"Mentre i destini io piango e i nostri danni,
ecco nova di lutto
cagion s’accresce a le cagioni antiche.
Io non so ben perch’io tanto m’affanni,
che poi ch’il miserando
nunzio s’intese, io me ne vo per tutto
gemendo e sospirando:
parmi qualch’aspro gioco
fatto m’abbia fortuna, e pur m’inganno;
dal cor l’ambascia si riversa e move,
e sol da la pietà non trovo loco.
Ahi non è vana cura;
che s’altrui colpa è questo ond’io m’affanno,
peggio è la colpa assai che la sciaura.


Forse l’empio tormento
di tue povere membra a dir io basto
o sventurata? e può di queste labbra
uscir tanto lamento
ch’al tuo dolor s’adegui allor che guasto
t’ebber la bella spoglia?
Tu lo sai, poverella, che non puote
voce mortal cotanto;
tu sai che per ch’il voglia
a narrar tuo cruciato altri non vale.
Che s’al ver non cedesse il nostro canto,
giuro che ’l bosco e ’l sasso umano e pio
di pietade immortale
faria per la tua doglia il canto mio.


Ahi ahi, misera donna, io gelo e sudo
pur quando ne la mente
mi ritraggo il tuo scempio: or sofferirlo
nel tuo tenero vel come fu crudo!
Ma dimmi, non ti valse
pria de lo strazio il palpitar frequente
e ’l tremito? e non calse
a quegli orsi del volto

sudato e bianco; e non giovarti in quella
orrida pena e sotto a’ ferri atroci
il pianto miserabile né il molto

addimandar pietate,
e non le triste grida, e non la bella
sembianza, e ’l gener frale, e non l’etate?


Misera, invan le braccia
spasimate stendesti, ed ambe invano
sanguinasti le palme a stringer volte,
come il dolor le caccia,
gli smaniosi squarci e l’empia mano.
Or io te non appello,
carnefice nefando, uso ne’ putri
corpi affondar l’acciaro:
odimi, a te favello
o scellerato amante. Ecco non serba
la terra il tuo misfatto, e invan l’amaro
frutto celasti a la diurna luce,
cui già di sotto a l’erba
ultrice mano al pianto e al sol riduce.


Vieni, mira, crudel. Questo giuravi
a lei ne la suprema
ora di sua costanza, e in quella colpa
che a te largia, tu col suo sangue lavi?
Così la sventurata
virtù ch’ella ti fea vittima estrema
le contraccambi? Or guata
questi martori, e questi
atteggiati d’asprissimo dolore
infelici sembianti: io grido o fera,
io grido a te; quando cotal vedesti
far la meschina, in quella
non ti sovvenne de l’antico amore?
Non quando al tuo desir la festi ancella?


Che misero diletto
fu ’l tuo, tradita amante! oh come poco
godesti di tuo fallo! E t’avea pure
già punita il sospetto
e la paura, e di vergogna il foco,
e le angosce, e lo sprone
del pentimento: or non bastava al fato
sì greve pena; or questo
ultimo guiderdone
serbava al fallo tuo: morir per opra
di quel che tanto amavi, e così presto
per l’età verde, e in barbaro cruciato,
e non lasciar qua sopra
altro che ’l sovvenir del tuo peccato.


Che dico? or qui non mi badar, ch’io mento
alma affannosa. Ed era
pur crudo il tuo destin, ma di pietade
spogliar non valse il lagrimoso evento.
E s’io con mesta voce
la tua vo lamentando ultima sera,
non infiammar l’atroce
rossor ti voglio; oh pria
schizzin le corde e fiacchisi la cetra,
e la lingua si sterpi e ’l braccio mora:
per consolarti io canto o donna mia,
canto perch’io so bene
che non ha chi m’ascolta un cor di pietra,
nè guarda il fallo tuo ma le tue pene.


Or dunque ti consola
o sfortunata: ei non ti manca il pianto,
nè mancherà mentre pietade è viva.
Mira che ’l tempo vola,
e poca vita hai persa ancor che tanto
giovanetta sei morta.
Ma molto più che misera lasciasti
e nequitosa vita
pensando ti conforta;
però che omai convien che più si doglia
a chi più spazio resta a la partita.
E tu per prova il sai, tu che del mesto
lume del giorno ha spoglia
tuo stesso amante, il sai che mondo è questo.


Ecco l’incauto volgo accusa amore
che non è reo, ma ’l fato
ed i codardi ingegni, onde t’avvenne
svegliar la dolce fiamma in basso core.
Voi testimoni invoco,
spirti gentili: in voi, dite, per fiato
avverso è spento il foco?
Dite, di voi pur uno
è che non desse a le ferite il petto
Per lo suo caro amor? Tu ’l vedi o solo
raggio del viver mio diserto e bruno,
tu ’l vedi, amor, che s’io
prendo mai cor, s’a non volgare affetto
la mente innalzo, è tuo valor non mio.


Che se da me ti storni,
e se l’aura tua pura avvivatrice
cade o santa beltà, perchè non rompo
questi pallidi giorni?
Perchè di propria man questo infelice
carco non pongo in terra?
E in tanto mar di colpe e di sciaure
Qual altr’aita estimo
avere a l’empia guerra,
se non la vostra infino al sommo passo?
Altri amor biasmi, io no che se nel primo
fiorir del tempo giovanil, non sono
appien di viver lasso,
m’avveggio ben che di suo nume è dono.


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