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sabato 14 settembre 2019

Cosa rimane di Rocco Scotellaro?


Osservare la tripartizione della grande opera pittorica di Carlo Levi esposta a Palazzo Lanfranchi di Matera, Lucania 61, consente di leggere graficamente il pensiero di Carlo Levi sul Mezzogiorno d’Italia e sul ruolo quasi salvifico che egli attribuiva alla figura di Scotellaro: a sinistra il mondo arcaico e magico la cui cupezza è spezzata dalla luminescenza del volto di Scotellaro morto, al centro le immagini del lavoro e del mondo contadino e infine il progresso civile che scaturisce dall’azione politica simboleggiato sempre dal volto di Scotellaro che illumina tutto il quadro. Le donne in nero del dipinto di certo citano De Martino e i suoi studi sui riti funerari in Basilicata. Il legame fra Levi e Scotellaro fu intenso e ricco di reciproche contaminazioni: Levi era convinto che Rocco, il poeta della libertà contadina, portatore di una visione poetica e insieme politica potesse essere il punto di partenza del grande riscatto del Sud, e Scotellaro vedeva in Levi il modello della compiutezza intellettuale da perseguire non solo quale percorso personale di conoscenza ma come condizione di militanza culturale e politica nella lotta per la liberazione delle classi subalterne. Non a caso Scotellaro imposta la sua opera L’uva puttanella proprio come un “memoriale”, così come egli stesso aveva definito il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, coltivando negli anni il progetto di una complessa opera esperienziale di analisi diretta del mondo contadino e delle prospettive di rinnovamento del Mezzogiorno che cessando di essere una “questione” irrisolta, potesse trovare una sua via autonoma di sviluppo. Già la definizione di uva puttanella dà il senso programmatico dell’opera che Scotellaro progettava, annotando episodi, vicende, pensieri, se si considera che si riferisce a quei grappoli che accanto ad acini più grossi e formati ne presentano altri, sì, più piccoli ma maturi e capaci comunque di dare il proprio succo nella tinozza assieme agli altri: efficace metafora del mondo contadino che rispetto alla industrializzata Europa appare meno sviluppato ma che serba una sua propria autentica “cultura” capace di evolversi.
La sua famiglia non era contadina. Il padre e il nonno di Rocco erano calzolai mentre la madre, sarta casalinga, svolgeva uno straordinario servizio sociale: leggeva e scriveva le lettere per i concittadini che corrispondevano con i parenti lontani e con l’amministrazione dello Stato; ma Rocco si sentì sempre indivisibilmente legato e appartenente a quel mondo contadino cui dava voce con le sue opere. I fratelli lo chiamavano
Pulce Rossa, perché era piccolo, rosso di capelli e vivacissimo, instancabile. Il modesto bilancio familiare gli consentì di studiare in un convitto di cappuccini a Sicignano, dove si formò dal punto di vista etico e imparò ad amare la letteratura e di completare il liceo stabilendosi temporaneamente dalla sorella a Trento dove si avvicinò al socialismo e ebbe coscienza della grande cultura europea che tanto distante pareva da Tricarico e dal suo mondo contadino. La percezione concreta quindi del dramma esistenziale dei contadini di casa sua lo aveva indotto a iscriversi al Partito socialista nel ‘43, tanto che nel ‘46 fu eletto sindaco nelle liste unitarie della sinistra del Fronte Popolare.
Nel breve film del 1979 a lui dedicato, il regista Maurizio Scaparro gli fa elencare, con l’entusiasmo che solo uno spirito poetico sa coltivare, le riforme e le istituzioni che intende realizzare come sindaco della sua Tricarico: l’edificio scolastico, la casa della madre e del bambino, l’asilo, la scuola agraria, la biblioteca popolare e poi agevolazioni per piccole industrie, una segheria, una tipografia, frantoi moderni, corsi per infermieri, riduzioni delle tariffe elettriche, scuole sovvenzionate… l’ospedale! E per la realizzazione dell’ospedale Rocco riuscì ad avere anche il consenso del vescovo Delle Nocche, arrivò cioè a mettere d’accordo, per la prima volta nella storia d’Italia, marxisti e cattolici su una questione concreta di autentica utilità sociale: l’ospedale in paese, e per finanziarlo creò il Fondo di Mutuo soccorso tricaricese, una immensa colletta alla quale parteciparono in tanti e che raccolse, fra le altre sottoscrizioni, molti vaglia di emigrati nelle Americhe che seguivano da lontano le sorti del paese natio. In meno di un anno, nell'agosto del 1947, si inaugurava l’ospedale di Tricarico, il terzo in tutta la Basilicata. Qua si fanno i figli per le fabbriche del nord e dell’America e poi ci torneranno indietro malati, vecchi: l’ospedale serve a noi e servirà al loro ritorno. diceva ai suoi compagni, mentre le innovazioni per il lavoro, l’istruzione, la viabilità, la diffusione dei diritti, frutto della sua opera instancabile da sindaco più giovane d’Italia avevano vasta eco in tutto il Mezzogiorno, in quel mondo cristallizzato dall'isolamento e dall'oppressione feudale del latifondo che il colonialismo sabaudo prima e il fascismo poi avevano perpetuato, sul solco già segnato dalla dominazione borbonica e che in quei mesi si credeva davvero si fosse giunti a una svolta, che fosse possibile una Italia più giusta,  condizioni di vita meno avvilenti: che si fosse sulla via dell’uscita dalla miseria.
L’entusiasmo per un possibile riscatto economico e sociale del Sud si infranse ben presto con le elezioni del 1948, con la “pozzanghera nera” del tradimento liberale e democristiano. Il governo De Gasperi diede l’avvio a politiche nettamente liberiste con i provvedimenti economici del ministro Einaudi. La DC, combattuto con ogni mezzo il Fronte popolare anche con il sostegno greve della Chiesa, in prosecuzione del liberalismo monarchico e del successivo fascismo, operava a tutela degli interessi speculativi della borghesia industriale al nord e di quella agraria al sud. I primi provvedimenti di Einaudi, infatti, furono inasprimenti fiscali e tariffari; una energica restrizione del credito che limitò la circolazione del denaro; l’abolizione del blocco dei licenziamenti che produsse immediatamente due milioni di disoccupati; la svalutazione della Lira di circa il 60% che ebbe come risultato di dare un irragionevole premio a chi avendo esportato all’estero i capitali durante la guerra, poteva rientrarli in Italia speculando su un concambio enormemente vantaggioso (225 milioni di Lire divenivano, per miracolo, 350 milioni) e al contempo di sostenere nelle esportazioni gli industriali italiani e di favorire le industrie americane che, col piano Marshall, si vedevano pagare le merci a un cambio dollaro/lira molto più vantaggioso. Gli storici confermano inoltre che i fondi del piano Marshall furono in gran parte utilizzati per importazioni e per nulla ad incrementare la domanda interna, a dare cioè lavoro e reddito stabile agli Italiani. Il conto di queste politiche ricadeva, ovviamente, sugli operai e sui contadini che furono costretti a manifestazioni di piazza dove la polizia del famigerato Mario Scelba aveva occasione di emulare le gesta di Bava Beccaris bastonando, schedando, arrestando, intimidendo e anche sparando in strada a chi chiedeva pane e lavoro. Di questo clima, che si protrasse per molti anni, fu vittima anche Scotellaro che, rieletto sindaco nel 1948, venne anonimamente accusato di peculato, arrestato e detenuto per quasi due mesi, prima che lo stesso tribunale certificasse non solo la sua innocenza, ma che l’accusa stessa fosse stata frutto di vendetta politica, un complotto dei suoi avversari. Scotellaro, con il suo rapporto strettissimo con i contadini e la sua capacità di dedicare ai più deboli importanti risorse del Comune costituiva un esempio pericoloso che – evidentemente - andava bloccato a ogni costo, come accadeva a quei tempi con diverse strategie, con le stragi di Portella della Ginestra, con le false accuse, con la Celere, con la squadra politica della polizia, la scomunica vaticana, le schedature, le discriminazioni, i licenziamenti, la camera di sicurezza.
Ma Scotellaro era sindaco sui generis, la sua concezione dell’amministrazione della cosa pubblica non era distante dalla elaborazione poetica e umana dell’esistenza e dal suo rapporto con le immense difficoltà del mondo contadino. Rocco studiava e diveniva una sorta di figura di intellettuale meridionale che amava la poesia e cercava di riprodurla e quindi scriveva e amministrava un Municipio, impersonando di fatto una figura unica nella storia, anche se a volte, in qualche sprazzo di amarezza ebbe a pensare se stesso come un Don Chisciotte in vesti nuove: meglio fesso che sindaco, gli gridò dietro un amico, una volta, lasciandolo pensieroso tanto che se lo appuntò, questo episodio, uno dei fiati caldi che i contadini gli soffiavano in cuore.
Leggeva Sinisgalli poeta lucano, e amava le pagine dense di mito e delusione di Cesare Pavese, pensando forse alle sue Langhe come alle proprie campagne tricaricesi, e nella sua opera si sentono gli echi dei versi di Quasimodo e dei classici. Il poeta Franco Fortini sottolineava che le sue
poesie hanno una tonalità a volte profetica, forse acquisita dallo studio dei testi sacri in collegio. Nelle pagine dell’Uva puttanella, opera chiamata romanzo, diario, biografia, certo incompleta, ma straordinario esperimento di scrittura politica, con pagine ricche di intensità, espressionismo, ironia, insieme a tante altre cose, lui racconta Tricarico come un contesto difficile nel quale la vita di ogni giorno è fatica e amarezza: Pasquale, l’artigiano dei fuochi d’artificio delle feste grandi ha lavorato tutta la vita, ogni giorno, ma non ha la pensione, non ha di che vivere, gli tolgono anche la casa e infine proprio con quei mortaretti di gioia pone fine ai suoi stenti, con l’ultimo sparo chiuso nel suo buio. E tanti profili, persone, storie, e la propria, dei nonni, del padre bandista, e i Tedeschi, i fascisti, e il carcere e Giappone il camorrista e i carcerieri: storie politiche di persone fra gli stenti e i passi morti sulla strada degli orti e del camposanto.
Scotellaro usa - si inventa - una lingua che è insieme raffinata e paesana, non scrive in dialetto: lui rende italiano la lingua dei contadini; dice “non si fidava più” per dire che non aveva più forze, dice “la legge gli fece la perquisizione, proprio come i contadini lucani hanno sempre indicato lo Stato, quello lontano, quello che si fa vivo solo per colpire, quello della “legge” misteriosa e arcigna che nessuno conosce, quella che colpisce a tradimento, una mattina all’alba, con una divisa e una carta scritta -  una carta abbagliante -, mentre le donne lavano i panni sullo “strigaturo”. Pagine a volte ironiche a volte dolorose eppure le sue immagini sono folgoranti, rapide pennellate piene di vita: “Zia Filomena, giovane era stata bella, una gallina faraona” e altrove: “la guerra era finita, si videro più donne a lutto: erano così belle le donne vestite di nero”: nella lingua di Rocco il colore diviene storia, vita passata, e dolore e bellezza; la poesia è immagine, narrazione e suggestione insieme: pensiero coinvolgente, ma che non piange.
Scotellaro sembra, nelle sue opere, aver voluto prendere il posto di sua madre nello scrivere le parole degli altri, dei suoi contadini, nel portare la loro voce, la lingua dei cafoni, le loro giacche quadriglié nel mondo intero, quel mondo di un altrove che aveva scoperto, questa volta nel Mezzogiorno d’Italia, ancora un “otro mundo” come disse Cristoforo Colombo delle Americhe, popolato anch’esso da civiltà sconosciute, come scrisse nel 1561un gesuita che si era insediato in queste terre: qui siamo nelle “Indie italiane”: i lucani come gli Aztechi, come i Sioux. A noi è andata un po’ meglio.
Cosa sia rimasto oggi dell’opera di Scotellaro non è facile capire, dopo le
potenti azioni di Carlo Levi e Manlio Rossi Doria con le pubblicazioni di Laterza del 1954-56; dopo le polemiche di matrice ideologica e politica che coinvolsero l’intellighenzia italiana degli anni ’50; dopo le lodevoli iniziative editoriali Mondadori curate da Franco Vitelli; dopo la pubblicazione del suo Scuole di Basilicata curata da Pancrazio Toscano nel 1999; dopo Il prezzo della libertà-Lettere da Portici, curata da Pasquale Doria per le Edizioni Giannatelli di Matera, 2015: oggi, il suo nome e le sue opere non compaiono nei programmi scolastici di letteratura italiana e restano, inspiegabilmente, letture di nicchia.
Eppure un’alba nuova per Scotellaro ci sta, come direbbe lui nella sua lingua contadina, ci sta: sta nel ricongiungimento alle origini primarie del suo scrivere per essere la voce dei suoi contadini, sta nell’aver avviato, lui per primo in Italia, con Contadini del Sud, una tradizione di raccolta di storie di vita di persone delle classi subalterne che grande rilievo ha nei moderni studi demoetrnoantropologici condotti in Italia da Alberto Mario Cirese - che già intervenne al famoso convegno delle polemiche tenuto a Matera nel 1955 -, e poi da Pietro Clemente, da Ferdinando Mirizzi e da tanti altri.
Scrive Clemente nel suo “Le parole degli altri”: “C'è in Scotellaro il segno di un passaggio dall'uomo subalterno come "scrigno" di tesori orali, o deposito di superstizioni a individuo che, come parte della collettività, ha vicende, ha modi di concepire la vita”. Cultura.
Con Scotellaro, insomma, il mondo arcaico e chiuso delle culture non egemoni esce dal ghetto del folklore e diviene vita, civiltà, sapere, esistenza e le storie individuali diventano la voce di eroi della storia quotidiana, di quelli che non hanno mai avuto voce e che disegnano la Storia con le loro storie.
Vale citare chi ha saputo proseguire, in altri territori fra altre classi subalterne, l’opera di raccogliere storie di vinti, come Nuto Revelli, alpino, partigiano, scrittore che raccolse lunghe interviste biografiche con uomini e donne delle vallate cuneesi e più di recente in Basilicata, lo scrittore Peppe
Lomonaco di Montescaglioso, contadino, operaio, emigrato, vigile, impiegato, narratore, che nel suo prezioso libro del 2016 “Se hai bisogno, dimmelo – Storie registrate di spiazzante umanità”, raccoglie le vite di emigrati, bambine e bambini, ragazzi a lavoro negli anni del boom, raccontate con la semplicità struggente del fatto accaduto, inesorabilmente accaduto, senza spazi al pianto, come in Scotellaro, né alla recriminazione.
Scotellaro può avere adesso una nuova vita, ora che la parcellizzazione del lavoro e in fondo della vita intera ci vede alienati senza che si sappia più esserne coscienti, ora che gli stravolgimenti planetari che il capitalismo continua a commettere in nome di un profitto senza limite, portano il mondo occidentale al contatto reale, quotidiano, con nuove Indie, le grandi masse subalterne del pianeta con le loro culture, le loro tradizioni, le credenze, le usanze, le superstizioni, il loro magismo; masse sterminate di indiani-contadini/del/sud, che in ogni parte del mondo sono al giogo di una sempre più ristretta classe dominante che, non ha più la protervia delle braghe bianche del padrone, ma l’evanescenza dei consigli di amministrazione e l’impalpabile anonimato delle multinazionali.










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