Osservare la
tripartizione della grande opera pittorica di Carlo Levi esposta a Palazzo
Lanfranchi di Matera, Lucania 61, consente di leggere
graficamente il pensiero di Carlo Levi sul Mezzogiorno d’Italia e sul ruolo quasi
salvifico che egli attribuiva alla figura di Scotellaro: a sinistra il mondo
arcaico e magico la cui cupezza è spezzata dalla luminescenza del volto di
Scotellaro morto, al centro le immagini del lavoro e del mondo contadino e
infine il progresso civile che scaturisce dall’azione politica simboleggiato
sempre dal volto di Scotellaro che illumina tutto il quadro. Le donne in nero
del dipinto di certo citano De Martino e i suoi studi sui riti funerari in
Basilicata. Il legame fra Levi e Scotellaro fu intenso e ricco di reciproche
contaminazioni: Levi era convinto che Rocco, il poeta della libertà contadina, portatore di una visione
poetica e insieme politica potesse essere il punto di partenza del grande
riscatto del Sud, e Scotellaro vedeva in Levi il modello della compiutezza
intellettuale da perseguire non solo quale percorso personale di conoscenza ma
come condizione di militanza culturale e politica nella lotta per la liberazione
delle classi subalterne. Non a caso Scotellaro imposta la sua opera L’uva
puttanella proprio come un “memoriale”,
così come egli stesso aveva definito il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo
Levi, coltivando negli anni il progetto di una complessa opera esperienziale di
analisi diretta del mondo contadino e delle prospettive di rinnovamento del Mezzogiorno
che cessando di essere una “questione” irrisolta, potesse trovare
una sua via autonoma di sviluppo. Già la definizione di uva
puttanella dà il senso programmatico
dell’opera che Scotellaro progettava, annotando episodi, vicende, pensieri, se
si considera che si riferisce a quei grappoli che accanto ad acini più grossi e
formati ne presentano altri, sì, più piccoli ma maturi e capaci comunque di dare
il proprio succo nella tinozza assieme agli altri: efficace metafora del mondo
contadino che rispetto alla industrializzata Europa appare meno sviluppato ma
che serba una sua propria autentica “cultura” capace di evolversi.
La sua famiglia non era
contadina. Il padre e il nonno di Rocco erano calzolai mentre la madre, sarta
casalinga, svolgeva uno straordinario servizio sociale: leggeva e scriveva le
lettere per i concittadini che corrispondevano con i parenti lontani e con l’amministrazione
dello Stato; ma Rocco si sentì sempre indivisibilmente legato e appartenente a
quel mondo contadino cui dava voce con le sue opere. I fratelli lo chiamavano
Pulce
Rossa, perché era piccolo, rosso di capelli e vivacissimo, instancabile.
Il modesto bilancio familiare gli consentì di studiare in un convitto di
cappuccini a Sicignano, dove si formò dal punto di vista etico e imparò ad
amare la letteratura e di completare il liceo stabilendosi temporaneamente
dalla sorella a Trento dove si avvicinò al socialismo e ebbe coscienza della
grande cultura europea che tanto distante pareva da Tricarico e dal suo mondo
contadino. La percezione concreta quindi del dramma esistenziale dei contadini di
casa sua lo aveva indotto a iscriversi al Partito socialista nel ‘43, tanto che
nel ‘46 fu eletto sindaco nelle liste unitarie della sinistra del Fronte
Popolare.
Nel breve film del 1979 a
lui dedicato, il regista Maurizio Scaparro gli fa elencare, con
l’entusiasmo che solo uno spirito poetico sa coltivare, le riforme e le
istituzioni che intende realizzare come sindaco della sua Tricarico: l’edificio
scolastico, la casa della madre e del bambino, l’asilo, la scuola agraria, la
biblioteca popolare e poi agevolazioni per piccole industrie, una segheria, una
tipografia, frantoi moderni, corsi per infermieri, riduzioni delle tariffe
elettriche, scuole sovvenzionate… l’ospedale! E per la realizzazione
dell’ospedale Rocco riuscì ad avere anche il consenso del vescovo Delle Nocche,
arrivò cioè a mettere d’accordo, per la prima volta nella storia d’Italia,
marxisti e cattolici su una questione concreta di autentica utilità sociale:
l’ospedale in paese, e per finanziarlo creò il Fondo di Mutuo soccorso
tricaricese, una immensa colletta alla quale parteciparono in tanti e
che raccolse, fra le altre sottoscrizioni, molti vaglia di emigrati nelle
Americhe che seguivano da lontano le sorti del paese natio. In meno di un anno,
nell'agosto del 1947, si inaugurava l’ospedale di Tricarico, il terzo in tutta
la Basilicata. Qua si fanno i figli per le fabbriche del nord e dell’America e
poi ci torneranno indietro malati, vecchi: l’ospedale serve a noi e servirà al
loro ritorno. diceva ai suoi compagni, mentre le innovazioni per il lavoro,
l’istruzione, la viabilità, la diffusione dei diritti, frutto della sua opera
instancabile da sindaco più giovane d’Italia avevano vasta eco in tutto il
Mezzogiorno, in quel mondo cristallizzato dall'isolamento e dall'oppressione
feudale del latifondo che il colonialismo sabaudo prima e il fascismo poi
avevano perpetuato, sul solco già segnato dalla dominazione borbonica e che in
quei mesi si credeva davvero si fosse giunti a una svolta, che fosse possibile
una Italia più giusta, condizioni di
vita meno avvilenti: che si fosse sulla via dell’uscita dalla miseria.
L’entusiasmo per un
possibile riscatto economico e sociale del Sud si infranse ben presto con le
elezioni del 1948, con la “pozzanghera nera” del tradimento
liberale e democristiano. Il governo De Gasperi diede l’avvio a politiche
nettamente liberiste con i provvedimenti economici del ministro Einaudi. La DC,
combattuto con ogni mezzo il Fronte popolare anche con il sostegno greve della Chiesa,
in prosecuzione del liberalismo monarchico e del successivo fascismo, operava a
tutela degli interessi speculativi della borghesia industriale al nord e di
quella agraria al sud. I primi provvedimenti di Einaudi, infatti, furono
inasprimenti fiscali e tariffari; una energica restrizione del credito che
limitò la circolazione del denaro; l’abolizione del blocco dei licenziamenti
che produsse immediatamente due milioni di disoccupati; la svalutazione della
Lira di circa il 60% che ebbe come risultato di dare un irragionevole premio a
chi avendo esportato all’estero i capitali durante la guerra, poteva rientrarli
in Italia speculando su un concambio enormemente vantaggioso (225 milioni di
Lire divenivano, per miracolo, 350 milioni) e al contempo di sostenere nelle
esportazioni gli industriali italiani e di favorire le industrie americane che,
col piano Marshall, si vedevano pagare le merci a un cambio dollaro/lira molto
più vantaggioso. Gli storici confermano inoltre che i fondi del piano Marshall
furono in gran parte utilizzati per importazioni e per nulla ad incrementare la
domanda interna, a dare cioè lavoro e reddito stabile agli Italiani. Il conto
di queste politiche ricadeva, ovviamente, sugli operai e sui contadini che furono
costretti a manifestazioni di piazza dove la polizia del famigerato Mario
Scelba aveva occasione di emulare le gesta di Bava Beccaris bastonando,
schedando, arrestando, intimidendo e anche sparando in strada a chi chiedeva
pane e lavoro. Di questo clima, che si protrasse per molti anni, fu vittima
anche Scotellaro che, rieletto sindaco nel 1948, venne anonimamente accusato di
peculato, arrestato e detenuto per quasi due mesi, prima che lo stesso
tribunale certificasse non solo la sua innocenza, ma che l’accusa stessa fosse
stata frutto di vendetta politica, un complotto dei suoi avversari. Scotellaro,
con il suo rapporto strettissimo con i contadini e la sua capacità di dedicare
ai più deboli importanti risorse del Comune costituiva un esempio pericoloso
che – evidentemente - andava bloccato a ogni costo, come accadeva a quei tempi
con diverse strategie, con le stragi di Portella della Ginestra, con le false
accuse, con la Celere, con la squadra politica della polizia, la scomunica
vaticana, le schedature, le discriminazioni, i licenziamenti, la camera di
sicurezza.
Ma Scotellaro era sindaco
sui generis, la sua concezione dell’amministrazione della cosa pubblica non era
distante dalla elaborazione poetica e umana dell’esistenza e dal suo rapporto
con le immense difficoltà del mondo contadino. Rocco studiava e diveniva una
sorta di figura di intellettuale meridionale che amava la poesia e cercava di
riprodurla e quindi scriveva e amministrava un Municipio, impersonando di fatto
una figura unica nella storia, anche se a volte, in qualche sprazzo di amarezza
ebbe a pensare se stesso come un Don Chisciotte in vesti nuove: meglio
fesso che sindaco, gli gridò dietro un amico, una volta, lasciandolo
pensieroso tanto che se lo appuntò, questo episodio, uno dei fiati caldi
che i contadini gli soffiavano in cuore.
Leggeva Sinisgalli poeta lucano,
e amava le pagine dense di mito e delusione di Cesare Pavese, pensando forse
alle sue Langhe come alle proprie campagne tricaricesi, e nella sua opera si
sentono gli echi dei versi di Quasimodo e dei classici. Il poeta Franco Fortini
sottolineava che le sue
poesie hanno una tonalità a volte profetica, forse
acquisita dallo studio dei testi sacri in collegio. Nelle pagine dell’Uva
puttanella, opera chiamata romanzo, diario, biografia, certo
incompleta, ma straordinario esperimento di scrittura politica, con pagine
ricche di intensità, espressionismo, ironia, insieme a tante altre cose, lui
racconta Tricarico come un contesto difficile nel quale la vita di ogni giorno
è fatica e amarezza: Pasquale, l’artigiano dei fuochi d’artificio delle feste
grandi ha lavorato tutta la vita, ogni giorno, ma non ha la pensione, non ha di
che vivere, gli tolgono anche la casa e infine proprio con quei mortaretti di
gioia pone fine ai suoi stenti, con l’ultimo sparo chiuso nel suo buio. E tanti
profili, persone, storie, e la propria, dei nonni, del padre bandista, e i
Tedeschi, i fascisti, e il carcere e Giappone il camorrista e i carcerieri:
storie politiche di persone fra gli stenti e i passi morti sulla
strada degli orti e del camposanto.
Scotellaro usa - si
inventa - una lingua che è insieme raffinata e paesana, non scrive in dialetto:
lui rende italiano la lingua dei contadini; dice “non si fidava più”
per dire che non aveva più forze, dice “la legge gli fece la
perquisizione, proprio come i contadini lucani hanno sempre indicato lo
Stato, quello lontano, quello che si fa vivo solo per colpire, quello della “legge”
misteriosa e arcigna che nessuno conosce, quella che colpisce a tradimento, una
mattina all’alba, con una divisa e una carta scritta - una carta abbagliante -, mentre
le donne lavano i panni sullo “strigaturo”. Pagine a volte
ironiche a volte dolorose eppure le sue immagini sono folgoranti, rapide
pennellate piene di vita: “Zia Filomena, giovane era stata bella, una
gallina faraona” e altrove: “la guerra era finita, si videro più donne
a lutto: erano così belle le donne vestite di nero”: nella lingua di
Rocco il colore diviene storia, vita passata, e dolore e bellezza; la poesia è
immagine, narrazione e suggestione insieme: pensiero coinvolgente, ma che non
piange.
Scotellaro sembra, nelle
sue opere, aver voluto prendere il posto di sua madre nello scrivere le parole
degli altri, dei suoi contadini, nel portare la loro voce, la lingua dei
cafoni, le loro giacche quadriglié nel mondo intero, quel mondo
di un altrove che aveva scoperto, questa volta nel Mezzogiorno d’Italia, ancora
un “otro mundo” come disse Cristoforo Colombo delle Americhe,
popolato anch’esso da civiltà sconosciute, come scrisse nel 1561un gesuita che
si era insediato in queste terre: qui siamo nelle “Indie italiane”:
i lucani come gli Aztechi, come i Sioux. A noi è andata un po’ meglio.
Cosa
sia rimasto oggi dell’opera di Scotellaro non è facile capire, dopo le
potenti
azioni di Carlo Levi e Manlio Rossi Doria con le pubblicazioni di Laterza del
1954-56; dopo le polemiche di matrice ideologica e politica che coinvolsero l’intellighenzia
italiana degli anni ’50; dopo le lodevoli iniziative editoriali Mondadori
curate da Franco Vitelli; dopo la pubblicazione del suo Scuole di
Basilicata curata da Pancrazio Toscano nel 1999; dopo Il prezzo della libertà-Lettere da Portici, curata da Pasquale Doria per le Edizioni Giannatelli di Matera,
2015: oggi, il suo nome e le sue opere non compaiono
nei programmi scolastici di letteratura italiana e restano, inspiegabilmente,
letture di nicchia.
Eppure un’alba
nuova per Scotellaro ci sta, come direbbe lui nella sua lingua contadina,
ci sta: sta nel ricongiungimento alle origini primarie del suo
scrivere per essere la voce dei suoi contadini, sta nell’aver avviato, lui per
primo in Italia, con Contadini del Sud, una tradizione di
raccolta di storie di vita di persone delle classi subalterne che grande
rilievo ha nei moderni studi demoetrnoantropologici condotti in
Italia da Alberto Mario Cirese - che già intervenne al famoso convegno
delle polemiche tenuto a Matera nel 1955 -, e poi da Pietro Clemente, da
Ferdinando Mirizzi e da tanti altri.
Scrive Clemente
nel suo “Le parole degli altri”: “C'è in Scotellaro il segno
di un passaggio dall'uomo subalterno come "scrigno" di tesori orali,
o deposito di superstizioni a individuo che, come parte della
collettività, ha vicende, ha modi di concepire la vita”. Cultura.
Con Scotellaro,
insomma, il mondo arcaico e chiuso delle culture non egemoni esce dal ghetto
del folklore e diviene vita, civiltà, sapere, esistenza e le
storie individuali diventano la voce di eroi della storia quotidiana, di quelli
che non hanno mai avuto voce e che disegnano la Storia con le
loro storie.
Vale citare chi ha
saputo proseguire, in altri territori fra altre classi subalterne, l’opera di
raccogliere storie di vinti, come Nuto Revelli, alpino, partigiano,
scrittore che raccolse lunghe
interviste biografiche con uomini e donne delle vallate cuneesi e più di
recente in Basilicata, lo scrittore Peppe
Lomonaco di Montescaglioso, contadino, operaio, emigrato, vigile, impiegato, narratore, che nel suo prezioso libro del 2016 “Se hai bisogno,
dimmelo – Storie registrate di spiazzante umanità”, raccoglie le vite di
emigrati, bambine e bambini, ragazzi a lavoro negli anni del boom, raccontate
con la semplicità struggente del fatto accaduto, inesorabilmente accaduto,
senza spazi al pianto, come in Scotellaro, né alla recriminazione.
Scotellaro può avere adesso una nuova vita, ora che la
parcellizzazione del lavoro e in fondo della vita intera ci vede alienati senza
che si sappia più esserne coscienti, ora che gli stravolgimenti planetari che
il capitalismo continua a commettere in nome di un profitto senza limite, portano
il mondo occidentale al contatto reale, quotidiano, con nuove Indie,
le grandi masse subalterne del pianeta con le loro culture, le loro tradizioni,
le credenze, le usanze, le superstizioni, il loro magismo; masse
sterminate di indiani-contadini/del/sud, che in ogni parte del
mondo sono al giogo di una sempre più ristretta classe dominante che, non ha
più la protervia delle braghe bianche del padrone, ma l’evanescenza
dei consigli di amministrazione e l’impalpabile anonimato delle multinazionali.
Nessun commento:
Posta un commento