Twilight.
A metà della lettura di questo strano libro mi si è ficcata in mente questa parola inglese.
Twilight.
Alba o crepuscolo che voglia dire, la parola indica un confine, un territorio incerto dove non è ancora notte ma non è più giorno, dove coabitano due luci, dove non è ancora giorno ma già non è più notte.
E Anceps.
Anceps diceva Orazio di se stesso e della Lucania, cioè bifronte, a due teste, regione portatrice, ora come allora, di almeno due culture; ma il termine vuol dire anche incerto, e ancora vuol dire indeciso e poi anche rischioso. E sospeso. Come sospeso a volte sembra essere il tempo, se contato fra le pagine di questo bel libro.
Anceps e twilight, mi sono venuti alla mente e così sono tornato indietro nelle pagine per ritrovare la traccia del passaggio che mi ha fatto apparire in testa queste vecchie parole: ma senza esito.
Forse è l’intero libro che suggerisce il concetto di bordo, il confine, la duplicità dell’esistere, la compresenza nella mente di ciascuno di ciò che è la realtà, o meglio, di ciò che si crede sia la realtà, e di ciò che si pensa possa essere, e di ciò che si crede debba essere e… e siamo già fuori di ogni dicotomia possibile per smarrirci nella molteplicità di ciò che la mente elabora e sente, con le complicanze che vengono dal considerare che il “sentire” e l’umore, inevitabilmente condizionano la percezione e qui il bandolo della trita matassa rischia davvero di smarrirsi.
“Il mondo è attraente per le sue infinite piccole cose”, fa dire l’Autrice al protagonista a pag. 38, e queste si trasmutano e dalla stanza di un sogno passano a un altro sogno, usando la realtà come mero corridoio di collegamento fra le “fermate” che scandiscono questo originale “viaggio” che Marco compie fra le mille stanze della rilettura del reale.
Esperimento non frequente e non facile – lo fa di recente Carofiglio a sessi inversi – è quello, intrigante, di una scrittrice che si mette nei panni di un protagonista maschile riuscendo a delinearne credibilmente i tratti tipici dell’altro genere. Ad Antonella Ciervo, nel suo ultimo romanzo, l’indossare vesti altrui riesce molto bene e il profilo maschile è verosimile e chiaro;, solamente il sogno di pagina 46 rivela sotto la lente psicoanalitica che si tratta del sogno di una donna che nel simbolo della “scalinata ripida e aperta sul vuoto” teme, stringendosi alla madre, di avventurarsi nel nulla, e la simbologia evocata torna funzionale alla suggestione complessiva che le pagine donano a chi legge.
Marco, il protagonista, non ha timori consci, solo sembra rimpiangere un’epoca in cui “esprimere opinioni era un modo per entrare in contatto con altre persone” (p. 54), mentre al presente egli capisce che in certi momenti “il silenzio è l’unico aiuto vitale di cui si ha bisogno”: (p. 61) e la solitudine assoluta l’unica dimensione esistenziale possibile. Lasciarsi alle spalle tutte le certezze di una vita borghese per buttarsi nella vita randagia di un barbone affamato – sporco e infreddolito nelle strade incattivite della fame e della emarginazione, della follia, a volte -, l’unico percorso possibile.
Il lungo viaggio del protagonista, insomma, in un mondo esteso dove le piccole cose si fanno simbolo, è la traccia pensosa di una ricerca di senso concreto, e le anime incontrate, viste o solo percepite nell’ombra, sono il controcanto corale della commedia umana che si dipana da millenni e che se non ci fosse qualcuno a raccontarla, neppure esisterebbe.
Ciervo, in questo romanzo parla di confine, di doppia luce, di bordi luminescenti, di volti polivalenti e nel mentre varca il confine che dalla cronaca di una fuga porta alla letteratura, ci invita a soffermarci sui dettagli dell’esistenza che, infine, sono l’ossatura vera dell’essere qui per qualche tempo, dicendoci che, in fondo, letteratura forse è proprio questo, il mescolarsi continuo nelle pagine di ciò che è, di ciò che sembra a chi scrive, di ciò che al lettore giunge; direi addirittura che chi legge, decifrando quei caratteri, sta a sua volta scrivendo quel libro che crede in quel momento di star solo leggendo, così che ciascuno trae da queste pagine propri e speciali saggi di umanità.
Magia dell’arte. Magia della parola scritta. Magia del narrare. E Ciervo possiede un bel po’ di questa magia.
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