Questa deliziosa suite intitolata Jonio mi fa pensare a molte cose.
Fra l’altro alla sobrietà.
Ma innanzitutto al fatto che non avevo mai usato prima di
oggi, riferendolo a un libro, l’aggettivo “delizioso”; la parola viene dal
latino lacere che vuol dire attirare, attrarre, allacciare. Appunto. È
quanto accaduto fra me e questo volumetto di Agnese Ferri edito da Edigrafema a
marzo di quest’anno.
E mai prima d’ora avevo pensato che un libro potesse essere -
più che una raccolta, più che una antologia -, una suite.
Sì, una suite, quelle della musica barocca, intese come articolate
composizioni di danze con tempi diversi, arie, sarabande, adagi, allegri, giga,
però concatenate da una sequenza narrativa che le accomuna. Sì, anche quelle
del “progressive rock” degli anni 70: le suite dei Pink Floyd, dei King
Crimson, dei Genesis, dei Procol Harum.
Jonio è una suite letteraria, un complesso di
racconti correlati non solo dal mare, ma dalla postura della narratrice che
trae da brevi spaccati di vite umane la cifra della nostalgia e del mistero a
volte doloroso dell’esistere e, gli occhi fissi sul passato e sul presente,
come l’Angelus novus di Paul Klee, volge le spalle al futuro verso il
quale corre. Si dice in Jonio: la strada mi ha portato qui. “Ora
che sono arrivata voglio dimenticare la strada”. Ma a volte non si
parte: “Questa terra mi cresce dentro”, si dice anche, quando si
decide di non lasciarla. Oppure la si lascia. E dentro rimane, questa terra, questo
mare: anche se si è lontani.
A queste cose pensavo. E pensavo al mare, ovviamente. E alla
pittura. Pensavo alle pennellate brevi degli impressionisti, al loro
giustapporre i colori puri per esaltare la luce: pensavo a Manet. E pensavo
alle case blu inondate di sole.
In fondo le arti hanno questo in comune: è la scelta dei
colori, delle note o delle parole a comporre l’immagine, è il loro rispettivo
ritmo a plasmare nella nostra mente la disposizione empatica che ci conduce al
riso o alla commozione o alla percezione astratta di ciò che da impalpabile, diviene,
nei nostri neuroni, cibo per la mente; la loro sequenza ha il potere,
nell’insieme, di richiamare dalla testa il nostro sentire più profondo,
rendendoci partecipi di drammi, passioni, sentimenti vaghi, posture dell’animo la
cui voce trova risonanze profonde dentro di noi. Se questo accade, quando
questo accade, parliamo di arte.
E con Jonio, accade: “Al mercato Linda sta parlando
con una ragazza, compra la frutta. Vicino a me un anziano signore nella sua
giacca di cotone parla al telefono e chiede dei fiori”.
Impressionante. Impressionismo. In un rigo e mezzo c’è una storia intera, cinque personaggi, forse sei; quattro azioni, un luogo pieno di gente, cinque oggetti che veicolano l’azione umana. La scena si compone lentamente, ne vediamo le luci, ed entriamo nelle intenzioni di ciascuno, siamo nei panni di ciascuno, quella scena di vita, a colori vividi, è indelebilmente dipinta nella nostra mente, un pezzetto alla volta.
La lettura dell’incipit di un’opera è comunemente
considerata la chiave con cui il lettore accede alle segrete stanze dell’opera
scritta che si trova per le mani. Molti, dopo aver letto l’incipit di un libro,
decidono se comprarlo per continuare a leggerlo, oppure rimetterlo sullo
scaffale del libraio. La “carta da visita” (direbbe Ezra Pound) di
questo volume pieno d’amore e d’amarezze - come lo è il mare -, possiamo dire coincida
con il primo racconto Bouganville, che è un piccolo gioiello, un inizio
da studiare a scuola, riga per riga, perché nei pressi di quella “sensuale
esplosione di rosso” scorrono i cento canali dell’essenza lucana: i
nomi dei poeti massimi, nostri, i nomi dei popoli antichi, i luoghi dell’alta
(o altra) Italia; e fluiscono i mille rivoli dell’esistenza umana: la
tenerezza, la morte, il conflitto generazionale, la persuasione che la vita è
fatta di svolte, la percezione del “sé” fino a farne un modello, oggettivato
eppure interiore, intimo eppure purissimo programma epistemologico: vivere per
somigliare all’idea di sé cresciuta nella mente, idea che “non è la semplice
somma di quel che è accaduto negli anni”, ma “l’essenza”, quella che,
secondo Aristotele, è ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra
cosa. E se i Greci dicevano "conosci te stesso e diventa ciò che sei",
Nietzsche suggeriva che questo è il compendio di ogni sapere: tutta la scienza consiste
nel “conosci te stesso"; qui la Linda di Agnese Ferri ci dice che
una volta percepita la propria essenza occorre realizzarla, perseguirla come un
programma, farne un imperativo esistenziale; la motociclista di 2 curve,
galleggiando “in questo mare di niente” avverte a un tratto, nel
profondo, che libertà è “essere chi vogliamo e cioè chi siamo davvero”
e soprattutto “la libertà di non essere più ciò che si è stati”. Perché
identità è libertà; e la libertà è fatica. La libertà è scegliere, come fa la
giovane Luna de Il lido, un racconto in cui la malinconia cresce
nell’aria con la semplicità delle piante spontanee.
Pagina dopo pagina entriamo nei luoghi e nella mente delle
persone che li attraversano; fra le cicale incontriamo la calura, la sabbia,
gli umori umani, le palizzate di fichi d’india, le case. E i colori, quelli che
portano al lettore la spezia dell’originalità come in Grano e Lavanda. Esistono
tanti tipi di amore, vi si spiega, ciascuno ha un suo colore, possiamo consultare
il catalogo che un immaginario imbianchino ci mostra per dipingerci la casa; “Signora,
scelga fra questi” e dopo giungere a dover ridare il bianco, se, come
in amore, si sceglie un colore sbagliato.
Il Blu domina. La casa blu, i capelli blu, il ragazzo blu,
la bambina Azzurra e il colore del mare che esplode anche dietro il grigio di
una mandria di vacche sdraiate al sole. Ci immergiamo nel mare che riempie col
suo sale queste pagine, testimone muto e immanente di vicende umane minute eppure
universali, un mare che a volte sembra vuoto come le case dei nostri paesi con
“i cartelli di affittasi e vendesi che sbiadiscono al sole”; che
a volte sembra intervenire come il Coreuta nella tragedia: “Ci pensi a
quanto sono diverse le cose su una riva da come lo sono sull’altra: eppure il
mare è lo stesso,” dice il narratore della danza tragica intitolata Serra
Marina; a volte è color dell’alluminio, come l’angoscia.
Serra Marina un racconto magistrale il cui pathos arde
in frasi misurate e semplici; qui la Τύχη ineluttabile passa come
la marea e il caso che domina l’universo diviene necessità. E morte.
Si dipanano cento vite fra queste pagine, cento svolte,
esistere significa scegliere, e partire e avere nell’anima quella postura
del ricordante che è l’asse di ogni narrare, il perno delle “Storie
della Vita” di Pietro Clemente.
Pensavo che fra queste pagine corrono e vivono i colori,
netti come note sul pentagramma, e si può sentire la grana grossa della sabbia,
e si avvertono gli odori - evocativi: quello della lavanda, che porta la mente
indietro negli anni e diviene l’odore della nostalgia, quello del mare e quello
dei vestiti, sempre lo stesso, odore di perduto, se ci passi un sasso sopra,
come in Polvere d’ossa.
E pensavo, infine alla poesia di Franco Fortini.
Quando da qui si guarda l’età del passato
veramente diventa possibile l’amore.
Mai così belli i visi e veri i pensieri
come quando stiamo per separarci, amici.
Esercizio della ragione e sentimento
sono due cose e vivacemente si legano
come la rosa è forma di mente e stupore.
Questo Jonio non l’ho conservato ancora sullo
scaffale della letteratura italiana fra quelli della Ferrante e quelli di
Flaiano, me lo tengo ancora un po’ qui, fra le carte, a portata di mano, ché ci
devo trovare ancora altre cose da pensare.
Nessun commento:
Posta un commento