Qualche tempo fa è comparsa in
libreria una curiosa opera di Massimo Donà intitolata “Filosofia del Vino”,
ovvero: l’ebbrezza come via privilegiata verso la conoscenza. L’opera è di
fatto molto originale e lascia riflettere la chiave u-morale del testo. Da
Socrate a Nietzsche, passando per Tommaso d’Aquino per Vico e per Cartesio, il vino ha spesso illuminato le menti più illustri,
si sostiene, interfacciando il sogno col reale, lo slancio immaginativo con la
scepsi. Il poeta Holderlin caro a Nietzsche per la profondità delle sue
intuizioni, diceva “…Un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando
pensa.”, senza con ciò recare oltraggio ai filosofi.
Risulta
praticabile quindi la nascita di una distinta nuova scuola di pensiero che
osservi il rapporto fra la mente e il vino e che dovremmo, necessariamente,
chiamare FenomEnologia. Nel rispetto della scuola di Husserl, la FenomEnologia osserverà i lacci stretti che
esistono fra uomo, pensiero, vino, arte, poesia, religione, rito, essendo essa
una scienza non di fatti ma di essenze e i fenomeni di
cui si occupa non reali ma irreali.
Che esistesse un
saldo legame fra vino e filosofia era già chiaro quando Platone descriveva la capacità di Socrate di consumare incredibili quantità di vino senza che la sua lucidità ne
fosse compromessa; la conferma la avemmo da Hegel quando scrisse la
“Fenomenologia dello Spirito” e vale rammentare che uno dei
più noti filosofi italiani si chiama proprio Buttiglione, anche se temo
che sia del tutto astemio.
Possiamo
facilmente ritenere che l’uso di sostanze psicotrope sia invalsa presso gli
umani sin dalla sua comparsa sul pianeta; il primitivo uomo frugivoro e
raccoglitore imparò da solo che certe bacche o erbe e fiori davano particolari
effetti sull’organismo, e si peritò di riprovare intenzionalmente quelle
sensazioni e magari di acquisirne una piccola scorta per le necessità. 5000
anni prima di Cristo i Sumeri usavano il medesimo ideogramma “UHL” per
indicare la gioia e il seme dell’oppio. L’uso del fuoco nelle grotte lasciò
facilmente scoprire che i fumi della combustione di certe piante potevano dare
ebbrezza ai convenuti. La coltivazione della vite, in origine pianta selvatica,
segna un passo importante nella evoluzione della umanità.
Se già 3500 anni
prima di Cristo un papiro egizio descriveva un impianto di distillazione
dell’alcool e se dal 3000 a.c. in Cina si usava abitualmente il tè come
corroborante, si comprende bene come intenso possa essere il rapporto fra
l’uomo e le sostanze euforizzanti. La capacità del vino di dare allegria e
anche oblio era nota agli estensori della Bibbia dove tra i proverbi si legge:
”dai del vino a coloro che menano vita grama, lasciali bere e dimenticare
la loro povertà” e nei Salmi: “… Così che possa trarne cibo
dalla terra e vino per allietare il cuore dell’uomo”, tanto che Noè,
scampato al diluvio, la prima cosa che fece toccando terra, fu piantare una
bella vigna. Il Talmud babilonese, 500 anni prima di Cristo, prescriveva: “Il
vino è alla testa di tutte le medicine”.
Ma è altrettanto
fuor di dubbio che l’uso del vino e di altre sostanze euforizzanti si è da
sempre trovata al centro di forti tensioni. Dal dualismo che emerge dalle
precedenti letture bibliche già si comprende che il vino allieta il cuore
dell’uomo che possiede una terra, la coltiva o la fa coltivare e se ne gode i
frutti; per coloro che hanno vita grama, invece, il vino reca oblio e
stordimento, ma occorre che altri gliene offrano. Il solco che divide questi
diversi usi del vino è lo stesso che separa i bambini della Favelas che
sniffano vernici e certi personaggi che tirano su col naso come se avessero
costosi raffreddori.
La leggenda narra
che il giovanetto Bacco affrontò un lungo viaggio a piedi attraverso la Grecia
e che per sostenersi si munì di un agile bastone. Lungo il cammino incontrò lo
scheletro di un uccellino. Impietosito ne raccolse un
ossetto e lo infilò sul
bastone. Più avanti i resti di un grosso leone gli fecero interrompere il
cammino. Anche della fiera raccolse un osso infilandolo vicino al primo e
proseguì il cammino. Dopo tanta strada si imbatté nella carcassa di un vecchio
asino. Un osso di questa povera bestia raggiunse i primi due infilati nel suo legno.
Alla fine del viaggio Bacco non ebbe più bisogno del bastone e lo piantò nel
terreno. Quando due anni dopo ripercorse il cammino, scoprì che il bastone era
germogliato e dai suoi pampini scendevano strani grappoli di frutta. Il sugo di
questi frutti, scoprì, dopo il primo bicchiere rendono l’uomo allegro come un
uccellino; l’ulteriore mescita rende l’uomo forte come un leone; le
somministrazioni successive lo rendono fiacco come un vecchio asino.
Bacco-Dioniso e Apollo
furono per i Greci l’espressione simultanea ma distinta della bellezza e della
ebbrezza. Due, infatti, secondo i Greci sono i momenti in cui l'uomo raggiunge
il sentimento estatico dell'esistenza: il sogno e l'ebbrezza, qui l’uomo è
artista pieno, creatore di ogni arte figurativa, di poesia e di pensiero
eccelso. E l'arte dionisiaca si fonda sul rapimento creativo, sul gioco con
l'ebbrezza che nelle feste dionisiache porta l’uomo all’oblio di sé e a
riconciliarsi con la natura.
Nella Roma imperiale il buon vino regnava accanto al trono di Caligola e
nelle sentine di ladri e soldataglia scorreva di qualità spregevole e
accompagnava stragi e saccheggi, ma il bucolico Virgilio amava cantare: “…
Qui mescerete nel bicchier vinello frizzante
ch’or dall’anfora spillai tra il gorgogliar d’un
garrulo ruscello.(…)
Pane Vino Amore qui convivono liberi e giocondi,
entra dunque sicuro, viandante (…)
scaccerai l’arsura bevendo a sorsi dal bicchier gelato
(…)
Ehi, servo, porta a tavola ch’è l’ora vino schietto e
dadi!”
Mentre apprendiamo che Virgilio aveva un servo e non sappiamo in che
rapporti fossero vino e servo, diamo per scontato che Orazio amasse molto l’aglianico delle sue terre.
Il tema del viandante in rapporto al vino e al pane assume valore sacrale
in quanto nella cultura popolare sacri sono i prodotti della terra (olio, vino)
e mangiare i prodotti della terra che si attraversava diveniva avvicinamento al
divino perché significava arricchirsi della energia di quel luogo. “…Silenzioso
entra il viandante; (…) Là risplende in piena luce / Sopra la tavola pane e
vino. (Holderlin)
La religione
musulmana impone ai fedeli l’astinenza da bevande alcoliche. La proibizione si
basa su alcuni versetti del Corano che mettono sullo stesso piano l’idolatria,
la divinazione, il gioco d’azzardo e l’uso di bevande fermentate, tra le quali
ovviamente c’è anche il vino. Eppure, Maometto, forse per tranquillizzare i
fedeli, prometteva di poter godere, una volta in Paradiso, anche le delizie del
vino; testualmente:
“ruscelli
in cui scivola il vino,
delizia di palati
raffinati” (Sura XLVII, 15).
Evidentemente la
promessa non aveva grande credito tra i fedeli che, a ogni buon conto, piamente
vendemmiavano e pigiavano, tanto che i loro governanti dovettero imporre la
lenta e progressiva distruzione di tutte le vigne da un luogo all’altro dei
paesi islamizzati, a partire dal secolo VIII dopo Cristo.
La distruzione da
parte dei cristiani dei simboli delle fedi pagane che consistette anche nella
progressiva cristianizzazione di tutti i riti superstiti, fece sì che Diana,
Minerva, Venere divenissero le tante Madonne adorate nel mondo occidentale e
che il Diavolo assumesse invece le sembianze di
Pan-
Bacco-Dioniso. Quello cioè che per le civiltà precedenti era stata la
rappresentazione della gioia, dell’entusiastico amore per l’ebbrezza del
vivere, diveniva invece l’immagine autentica del Male assoluto. La gioia
diveniva peccato mentre l’astinenza e il castigo divenivano le massime virtù.
Il processo, tuttavia, risparmiò il vino, assumendolo anzi a oggetto
sacrificale in sostituzione del sangue (proibito nei riti anche da Maometto)
e conservandogli il valore simbolico di favorire e propiziare i patti, i riti e
gli incontri.
Dei tentativi
falliti di proibire (agli altri) i piaceri della vita è zeppa la storia
di tutti i popoli e di tutti i poteri; ne trova traccia W.F. Crafts per esempio già in un papiro egizio del 2000 a.c. dove un sacerdote scrive
al suo giovane e allegro allievo: “Io, tuo superiore, ti proibisco di
andare nelle taverne”. Il sommo aveva certo le sue ragioni, ma nei
secoli successivi le proibizioni furono sempre più spesso dettate da ragioni
economiche o di potere. In molte regioni europee, periodicamente veniva
proibito il vino perché l’ebbrezza abbassava il rendimento lavorativo dei
minatori. Al contrario, prima della battaglia, a quegli stessi minatori cui
mettevano la divisa perché difendessero dallo straniero le miniere del padrone,
veniva somministrata una buona dose di cognac perché in preda alla ebbrezza
fossero più valorosi in battaglia, tanto per distinguere l’ebbrezza utile da
quella disutile.
I legami fra
uomo, pensiero, vino, arte, poesia, religione, rito, quindi, sono forti e
indissolubili, vale ricordare il legame di Michelangelo col buon “chianti” quando affrescò la Cappella Sistina col
Noè vignaiolo, mentre riepilogare torbide epoche di proibizionismi potrebbe
essere latore allo spirito di melanconie qui superflue.
Si può chiudere
quest’abbozzo semiserio per una FenomEnologia con quella che può essere la immagine universale del rapporto fra uomini e
vino e pensiero e opere e arti e mestieri, assaporando una delle più belle
poesie di Rocco Scotellaro tratta da “Quaderno a cancelli”.
(w/cody)*
Cena
Voglio aria la
sera e consumazione
di vino e
castagne in compagnia
perché ognuno
conta una storia
e insieme viene
l’armonia.
Lo scarparo è
stato tutto il santo giorno in casa
fino a che si è
fatto scuro e si è cavato il senale,
con quello ha
coperto il bancarello e i ferri
e ha detto a
moglie e figli: Io esco, andatevi a coricare.
Il fabbricatore
viene direttamente dalla casa che fabbrica
con le lenticchie
di calce azzeccate sotto l’occhio.
Il sarto anche
lui con un filo e l’impiegato
con l’inchiostro
sciolto alla punta di due dita.
I contadini sono
più di uno
con succhi di
stalla sul collo.
Ed io ho sbattuto
il libro già ingoiato dall’ombra.
Ci siamo allora
azzuffati alla morra,
la moglie e la
figlia del falegname,
dove stiamo
bevendo, girano attorno alla tavola
e dicono che
siamo proprio bambini.
Abbiamo cacciato
i tozzi di pane da tasca
e chi olive, chi
una noce, chi la cipolla e il peperone;
l’impiegato ha
diviso la frittata incartata
in un foglio di
ufficio, e abbiamo bevuto.
Amore, amore
veniva da cantarlo
tutta la santa
notte in compagnia.
La moglie e la
figlia del falegname
si sono ritirate
dicendo:
questi fanno far
giorno.
(Scotellaro – Quaderno a cancelli)
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