Le passioni che il protagonista rammenta essere i moventi primari di ogni delitto, rimangono degli enunciati, pallidi nelle parole che dovrebbero invece evocarle palpitanti.
Il Commissario è strambo e il potere sovrannaturale che sembra possedere - come è di moda nei telefilms di ultima generazione, zeppi di veggenti, indovini e sensitivi -, questa volta non contribuisce a modellare la malinconia che si vuol attribuire all'investigatore, anzi, in questo romanzo, risulta posticcio, da fumetto.
I personaggi, seppur vari e ben descritti, sono di una coerenza schematica che ancora una volta rimanda alla dimensione ben disegnata del fumetto d'autore.
Il commissario, funzionario di un organismo plurale, la Polizia, sembra invece autonomo e solitario come un investigatore privato col suo fido Watson; un commissariato di PS a Napoli, che dovrebbe esser pieno di gente, fra poliziotti, addetti, turni vocianti, scippi volanti, pattuglie e ronde da approntare, briganti e altro popolo in chiassosa circolazione, nel romanzo è invece un'astrazione, un luogo silenzioso e deserto abitato solo dal duo investigante.
Le caratterizzazioni dei personaggi sono verbose e paiono divagazioni: la vicenda scorre bene ma la "letteratura" sembra aggiunta in forma di riempitivi climatizzanti, tanto da concretizzare il sospetto che questi siano più che altro funzionali a raggiungere le 300.000 battute prescritte.
In ultima pagina i ringraziamenti a un vagone di collaboratori che si immagina essere coautori (editors si dice adesso), portano a comprendere la sensazione prima percepita di "letteratura aggiunta", come il glutammato nei risotti.
I collaboratori, all'evidenza, sembra che firmino le colte e gradevoli escursioni nella partenopea tradizione religiosa e culinaria.
Tuttavia degli altrettanto numerosi collaboratori che l'autore ebbe a ringraziare in calce al precedente romanzo "Il posto di ognuno", il lettore non si accorgeva poi tanto e al contempo in quel libro notava meno il retrogusto della "letteratura aggiunta".
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