Peppe Lomonaco è uno scrittore, ma soprattutto Peppe è un narratore, colui cioè che le cose le sa raccontare, che sa usare le parole e le frasi per costruire situazioni e personaggi così appassionanti che le loro vicende ci commuovono e ci divertono.
E ci fanno pensare.
In tutte le sue pagine, Peppe Lomonaco ci racconta il ‘900.
E non lo fa attraverso ricostruzioni storiografiche o per citazioni documentali; come nella grande letteratura, Peppe ci racconta il ‘900 attraverso i personaggi che hanno abitato il nostro‘900, che nel ‘900 hanno vissuto, comparse tragiche della commedia umana, protagonisti di esistenze povere ma non marginali, ricche di passioni ma estranee ai palcoscenici della storia con la effe maiuscola. Persone.
In “visite eccellenti”, prima prova magnifica di satira popolare, Peppe ci racconta la monarchia e il fascismo, ci riferisce della grottesca egolatria di gerarchi da operetta e di servili faccendieri che dalla fedeltà al potere attendono – oggi come allora – benefici e privilegi.
In altre pagine Peppe ci racconta la civiltà contadina, il mondo operaio, ma sempre attraverso le vite tragiche dei personaggi, tragiche proprio nel senso originario del termine, proprio di vicende elevate e solenni.
In molti racconti e nel suo più premiato romanzo Lomonaco ci consegna la dignità a volte tragica delle classi subordinate, ma senza mai cadere nella sfruttata retorica della civiltà contadina, e neppure nella palingenesi da “politecnico” di Vittorini del mito della classe operaia; non ci racconta il quarto stato, ma le vicende di personaggi che contadini erano, operai divennero e merce di scambio e mano d’opera da deportazione furono, nel corso del ‘900.
Poco dopo la guerra, non rimpianti padri costituenti giravano le nostre regioni, paese per paese, nelle campagne casa per casa ad esortare alla emigrazione, a lasciare le terre per fornire mano d’opera a buon mercato a una industria da boom economico settentrionale.
L'emigrazione di tutte le braccia abili dal Sud quale irrinunciabile risorsa per la ripresa industriale del Nord Italia post-bellico, alla faccia della questione meridionale.
Il prezzo umano di quelle scelte fu altissimo.
Il prezzo economico di quelle scelte fu altissimo e tutto il Mezzogiorno lo sta ancora pagando.
Questo squarcio di ‘900 ci ha raccontato Peppe in “E’ stata una lunga giornata”, la dignità del contadino, la dignità dell’operaio nell'attraversare la dura esistenza di quegli anni.
In “GITA AZIENDALE”, Peppe fa fare a noi una gita esplorativa nell'altra faccia del secolo scorso, nel “delizioso mondo” della civiltà impiegatizia del ‘900.
A leggere queste pagine viene in mente Nikolaj Gogol’, che forse fu il primo a descrivere in letteratura la grottesca umanità nascosta fra le scartoffie della pachidermica burocrazia zarista dell’800 russo.
In Italia, a parte l’originalissimo Fantozzi di Villaggio, credo che Peppe sia assolutamente l’unico ad aver affrontato il tema con l’occhio impietoso della satira. Villaggio stesso diceva che il segreto del successo di un personaggio così vile e privo di dignità sta nel fatto che ciascun lettore/spettatore individua il “Fantozzi” nel proprio collega, non è sfiorato dal sospetto di poter essere lui il sottomesso e servile impiegato che lo schermo raffigura.
In questa antologia Peppe Lomonaco descrive la grottesca mancanza di dignità di quell'altra classe subordinata, quella che subordinata non si sente: gli impiegati, la classe della mitica civiltà impiegatizia del 900.
Leggendo queste pagine si ha l’impressione di contemplare dei quadri di Franz Borghese e di George Grosz, che graficamente rappresentarono l’aspetto grottesco del potere nelle divise stellate dei generali, nelle marsine dei padroni, nella pance prominenti di bassi ricconi, nelle porpore dei ricchi prelati, nei cappelli a cilindro dei potenti, e insieme del servilismo e delle sue svariate facce, la sottomissione bassa di "chi ha la faccia e mostra solo il viso, sempre gradevole sempre più impreciso" (F.De Andrè, Storia di un impiegato 1973).
L’uomo medio.
Pasolini era convinto che le classi subordinate, pur se uscite dalla miseria materiale, fossero comunque rimaste prive di strumenti culturali che gli dessero coscienza della realtà in cui vivevano e ciò le escludeva dalla reale partecipazione alla vita pubblica. Allarmato, vedeva con angoscia una società composta non da “proletari” dotati di coscienza di classe, ma da massa di consumatori il cui apparente perbenismo era l’immagine stessa del servilismo. Dalla scena sociale scompare il reietto, l’ultimo, il ragazzo di vita, il figlio di mamma Rosa,; scompare il dignitoso “ladro di biciclette” – meta-personaggio del neorealismo italiano, scompare il borgataro e compare … l’uomo medio.
Nell'episodio “La Ricotta” del film a quattro mani “RoGoPaG dove, simbolicamente crocifisso, l’ACCATTONE morirà di una grottesca indigestione, Pasolini fa dire a Orson Wells che:
L’UOMO MEDIO E’ UN MOSTRO,
UN PERICOLOSO DELINQUENTE,
CONFORMISTA,
COLONIALISTA,
RAZZISTA,
SCHIAVISTA.
UN QUALUNQUISTA.
Era il 1963 – 50 anni fa.
Guardiamoci intorno.
Peppe non è così esplicito, però quelle … doti ci sono tutte nei suoi personaggi; quegli impiegati grottescamente raffigurati sono così, l’uomo comune, il succedaneo dell’accattone morto d’indigestione. Ma Peppe ce le lascia intuire sullo sfondo delle misere vicende in cui l’uomo medio si avvince, in un panorama di desolante mediocrità umana, dove gente senza idee, interagisce con gente senza sogni, e contende posti di prestigio apparente ad altra gente incolta e persa dietro i feticci oggettuali del consumismo.
Ambienti in cui la mancanza di dignità è programmatica ed è requisito aggregante, dove la mancanza di dignità è come la tessera di adesione al clan che ciascuno deve poter esibire, all'occorrenza.
Peppe ci racconta La civiltà impiegatizia del 900.
Fra qualche secolo un archeologo, scavando nei rinnovati ipo-ipogei del materano potrà ritrovare le vestigia della mitica “civiltà impiegatizia del ‘900 Rupestre” che sostituì fra le pietre murgiane la civiltà contadina che la aveva preceduta.
I reperti saranno poi esposti in un apposito museo aperto al pubblico martedì e giovedì dalle 9 alle 10 e i visitatori potranno ammirare gli specifici strumenti d'opera di questa antica civiltà impiegatizia:
una primordiale penna quasi funzionante,
una mezza manica un po' lisa,
un cappuccino fossile certificato,
un atto notorio incartapecorito,
un prezioso cartello "torno subito"
i resti ossificati di una tangente,
una risma semiusata di carta copiativa,
due preziosissimi timbri, uno rotondo e uno orizzontale per l'apposizione dei quali su certi formulari i cittadini dovevano versare somme ingenti di denaro,
e poi un tampone inchiostrato per timbri tondi,
un bagnadita,
un dattilo zoppo,
una macchina per scrivere semifunzionante,
una vagonata di telefoni di ogni foggia,
e uno schedario a cassetti retrattili con dentro i resti fossili di un panino.
Saper narrare è un dono.
E Peppe ha il dono di saper raccontare e tutti noi, come i bambini con le favole, diciamo: ancora.
E dai, raccontaci ancora.
E ci fanno pensare.
E non lo fa attraverso ricostruzioni storiografiche o per citazioni documentali; come nella grande letteratura, Peppe ci racconta il ‘900 attraverso i personaggi che hanno abitato il nostro‘900, che nel ‘900 hanno vissuto, comparse tragiche della commedia umana, protagonisti di esistenze povere ma non marginali, ricche di passioni ma estranee ai palcoscenici della storia con la effe maiuscola. Persone.
In “visite eccellenti”, prima prova magnifica di satira popolare, Peppe ci racconta la monarchia e il fascismo, ci riferisce della grottesca egolatria di gerarchi da operetta e di servili faccendieri che dalla fedeltà al potere attendono – oggi come allora – benefici e privilegi.
In altre pagine Peppe ci racconta la civiltà contadina, il mondo operaio, ma sempre attraverso le vite tragiche dei personaggi, tragiche proprio nel senso originario del termine, proprio di vicende elevate e solenni.
Poco dopo la guerra, non rimpianti padri costituenti giravano le nostre regioni, paese per paese, nelle campagne casa per casa ad esortare alla emigrazione, a lasciare le terre per fornire mano d’opera a buon mercato a una industria da boom economico settentrionale.
L'emigrazione di tutte le braccia abili dal Sud quale irrinunciabile risorsa per la ripresa industriale del Nord Italia post-bellico, alla faccia della questione meridionale.
Il prezzo umano di quelle scelte fu altissimo.
Il prezzo economico di quelle scelte fu altissimo e tutto il Mezzogiorno lo sta ancora pagando.
Questo squarcio di ‘900 ci ha raccontato Peppe in “E’ stata una lunga giornata”, la dignità del contadino, la dignità dell’operaio nell'attraversare la dura esistenza di quegli anni.
A leggere queste pagine viene in mente Nikolaj Gogol’, che forse fu il primo a descrivere in letteratura la grottesca umanità nascosta fra le scartoffie della pachidermica burocrazia zarista dell’800 russo.
In Italia, a parte l’originalissimo Fantozzi di Villaggio, credo che Peppe sia assolutamente l’unico ad aver affrontato il tema con l’occhio impietoso della satira. Villaggio stesso diceva che il segreto del successo di un personaggio così vile e privo di dignità sta nel fatto che ciascun lettore/spettatore individua il “Fantozzi” nel proprio collega, non è sfiorato dal sospetto di poter essere lui il sottomesso e servile impiegato che lo schermo raffigura.
In questa antologia Peppe Lomonaco descrive la grottesca mancanza di dignità di quell'altra classe subordinata, quella che subordinata non si sente: gli impiegati, la classe della mitica civiltà impiegatizia del 900.
Leggendo queste pagine si ha l’impressione di contemplare dei quadri di Franz Borghese e di George Grosz, che graficamente rappresentarono l’aspetto grottesco del potere nelle divise stellate dei generali, nelle marsine dei padroni, nella pance prominenti di bassi ricconi, nelle porpore dei ricchi prelati, nei cappelli a cilindro dei potenti, e insieme del servilismo e delle sue svariate facce, la sottomissione bassa di "chi ha la faccia e mostra solo il viso, sempre gradevole sempre più impreciso" (F.De Andrè, Storia di un impiegato 1973).
L’uomo medio.
Pasolini era convinto che le classi subordinate, pur se uscite dalla miseria materiale, fossero comunque rimaste prive di strumenti culturali che gli dessero coscienza della realtà in cui vivevano e ciò le escludeva dalla reale partecipazione alla vita pubblica. Allarmato, vedeva con angoscia una società composta non da “proletari” dotati di coscienza di classe, ma da massa di consumatori il cui apparente perbenismo era l’immagine stessa del servilismo. Dalla scena sociale scompare il reietto, l’ultimo, il ragazzo di vita, il figlio di mamma Rosa,; scompare il dignitoso “ladro di biciclette” – meta-personaggio del neorealismo italiano, scompare il borgataro e compare … l’uomo medio.
Nell'episodio “La Ricotta” del film a quattro mani “RoGoPaG dove, simbolicamente crocifisso, l’ACCATTONE morirà di una grottesca indigestione, Pasolini fa dire a Orson Wells che:
L’UOMO MEDIO E’ UN MOSTRO,
UN PERICOLOSO DELINQUENTE,
CONFORMISTA,
COLONIALISTA,
RAZZISTA,
SCHIAVISTA.
UN QUALUNQUISTA.
Era il 1963 – 50 anni fa.
Peppe non è così esplicito, però quelle … doti ci sono tutte nei suoi personaggi; quegli impiegati grottescamente raffigurati sono così, l’uomo comune, il succedaneo dell’accattone morto d’indigestione. Ma Peppe ce le lascia intuire sullo sfondo delle misere vicende in cui l’uomo medio si avvince, in un panorama di desolante mediocrità umana, dove gente senza idee, interagisce con gente senza sogni, e contende posti di prestigio apparente ad altra gente incolta e persa dietro i feticci oggettuali del consumismo.
Ambienti in cui la mancanza di dignità è programmatica ed è requisito aggregante, dove la mancanza di dignità è come la tessera di adesione al clan che ciascuno deve poter esibire, all'occorrenza.
Peppe ci racconta La civiltà impiegatizia del 900.
Fra qualche secolo un archeologo, scavando nei rinnovati ipo-ipogei del materano potrà ritrovare le vestigia della mitica “civiltà impiegatizia del ‘900 Rupestre” che sostituì fra le pietre murgiane la civiltà contadina che la aveva preceduta.
I reperti saranno poi esposti in un apposito museo aperto al pubblico martedì e giovedì dalle 9 alle 10 e i visitatori potranno ammirare gli specifici strumenti d'opera di questa antica civiltà impiegatizia:
una primordiale penna quasi funzionante,
una mezza manica un po' lisa,
un cappuccino fossile certificato,
un atto notorio incartapecorito,
un prezioso cartello "torno subito"
i resti ossificati di una tangente,
una risma semiusata di carta copiativa,
due preziosissimi timbri, uno rotondo e uno orizzontale per l'apposizione dei quali su certi formulari i cittadini dovevano versare somme ingenti di denaro,
e poi un tampone inchiostrato per timbri tondi,
un bagnadita,
un dattilo zoppo,
una macchina per scrivere semifunzionante,
una vagonata di telefoni di ogni foggia,
e uno schedario a cassetti retrattili con dentro i resti fossili di un panino.
E Peppe ha il dono di saper raccontare e tutti noi, come i bambini con le favole, diciamo: ancora.
E dai, raccontaci ancora.
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